Marco era li, quella sera, su quel vagone a guardare il mondo dal finestrino di un treno. Aveva le illusioni che possono rimanere a quarant’anni e la saggezza che gli è venuta da una gioventù troppo breve. Troppo breve davvero, non ricordava neanche più quando fosse diventato adulto, tanto era passato del tempo. La ragazza che stava seduta davanti a lui lo stava fissando da ore; attirata senza una ragione apparente da quello sguardo penetrante e quei capelli scarmigliati, che facevano del suo volto una maschera affascinante ma senza espressione. La mente del ragazzo stava ripercorrendo a ritroso la propria vita: non era stata così lunga, ma intensa ma quello si.
Gli occhi erano assenti ma lo sguardo dell’anima stava vagando nella campagna calabra. Vedeva sua madre, quella donna povera ma bella, quelle guance e quel petto floridi da donna mediterranea. Per un attimo lo sfiorò un pensiero: di una donna così avrebbe potuto innamorarsene. Lo rimosse subito; colto da quel senso di moralità che è proprio di ogni essere umano, anche di quanti dicano di averlo perduto. Sua madre gli aveva sempre voluto bene, tanto da compensare la distanza del padre, quell’inverno che si era trasferito al Nord. Spinto dal bisogno di uno stipendio per mantenere una moglie e un figlio piccolo, stipendio che da quei campi frustati del sole proprio non si riusciva a cavarlo. Ma nei quali, con la testardaggine tipica di quel popolo millenario sopravvissuto nei secoli ai padroni stranieri, era rimasta solo quella donna, a lavorare quella terra dura, misto di sassi e sabbia.
Rivedeva ancora quel natale del 1962, quando il papà tornò a casa per la prima volta da Milano con la seicento e portò dolci e regali e poi, proprio nella notte in cui nasce Nostro Signore, annunciò trionfante che quando sarebbe ripartito non l’avrebbe fatto solo, perché una bella casa moderna li aspettava tutti a Milano. Marco si rivedeva e ritrovava con lo stesso stupore del bambino di quattro anni che era allora. Ricorda il viaggio, lunghissimo, e poi quello scatolone enorme di cemento che sarebbe stata per quindici anni la sua casa.
“Mi scusi, può aprire per cortesia il finestrino?” Marco impiegò un attimo, poi si accorse che a parlare era stata la ragazza che aveva seduta di fronte. “Subito”, senza alzare gli occhi si alzo, apri il finestrino e fu colto in pieno volto dall’aria pungente del mattino.
Proprio come quell’aria che sembrava voler entrare nelle sue ossa del sud quando, scolaro delle elementari e delle medie, di buon mattino usciva dal quel palazzone milanese, che si era accorto essere non poi così diverso da tanti altri e nemmeno così brutto in fondo. Ripensava a come era bella l’illusione dell’infanzia che quello che siamo e abbiamo, sia l’unica dimensione possibile; la voglia di diventare grandi mentre lo si diventa già troppo in fretta, le corse con gli amici, i sorrisi della mamma e i profumi dei luoghi in cui si vive, la faccia del babbo che torna ogni sera e si compiace di avere un figlio cittadino. Poi la scelta delle scuole superiori, che costavano tanto ma, come dicevano i professori con un figlio così bravo è un peccato farne un operaio. E allora il liceo classico: era lontano dal quartiere, un po’ come tutto ciò che non erano dormitori. L’incontro con i nuovi compagni, le sue presunte e reali inferiorità davanti a quelle espressioni della migliore classe medio alta della Milano anni Settanta. E poi i suoi vestiti, che quando erano nuovi eran troppo lunghi, comperati per la crescenza come diceva la mamma, altrimenti eran già troppo corti. I professori del ginnasio, per i quali il sessantotto era stata una bestemmia da ricoprir d’acqua santa. Poi le cose migliorarono, era bravo a scuola e lo era in modo simpatico, senza spocchia, così i compagni cominciarono a stimarlo, quanto meno perché le versioni di greco le passava. L’illusione che il mondo conosciuto fosse solo quello piccolo intorno a lui cadeva giorno dopo giorno, come un muro sotto i colpi di una mazza, a blocchi grandi, che fanno male dentro ma spingono alla sfida. Cominciò a guardarsi intorno, a dire il vero più che altro guardava i fianchi di Valentina, finché un giorno, mentre stavano insieme a studiare a casa di lei, se li ritrovo troppo vicini ai suoi.
La mattina seguente nessuno dei due era preparato in greco, ma entrambi di certo, eran più preparati alla vita. A Marco pareva ieri che era entrato per la prima volta a casa di Vale, figlia di un industriale miliardario: ragazza incazzata con il mondo, con l’illusione di cambiarlo.
Ora ripensa a quante volte rincasava la sera tardi, con l’ultimo tram o a piedi perché a quell’ora tram non ne passavano più, e i genitori stanchi per il lavoro già dormivano; e ripartiva la mattina presto, ma già tardi per incontrare il padre. Erano gli anni in cui la politica si doveva ancora scrivere con la P maiuscola, ma se te la dimenticavi era meno grave di dieci anni prima. I cortei nelle piazze si facevano ancora, ma finivano sempre male. Erano rimasti in pochi a combattere la battaglia, non importa per che cosa o da che parte, e per questo lo facevano con l’aiuto delle armi. Oltre alla solita Vale, aveva degli amici, intelligenti come lui per i quali patria e storia erano cose serie. Si trovavano a discutere insieme con un giovane professore, che gli forniva spunti di approfondimento e libri. Si partiva dalla convinzione che quello che tanti credono giusto, spesso è sbagliato. Si arrivava o si passava per pensatori e pensieri pericolosi, per cattivi maestri e sogni azzardati.
Cullato dal rumore ritmico delle rotaie, rivede ora quelle sere in cui si discuteva, ci si arrabbiava, si insultava la miopia di quelli che si facevano chiamare compagni, si soffriva per la Patria venduta al capitale, per di più straniero, si sognava un ordine nuovo per le cose. E poi si ritornava a casa.
Ma anche il liceo finì, Marco ebbe il suo sessanta, i pianti di gioia dei suoi genitori con i quali intanto si era trasferito in una casa più bella, frutto della liquidazione del babbo andato in pensione.
“Signore, biglietto per cortesia”, disse il controllore che era giunto al sedile di Marco. Il ragazzo trasalì, alzo gli occhi in modo improvviso. “Tutto bene, signore” chiese il controllore. “Si, si, solo ero immerso nei miei pensieri; ecco il biglietto”. “Grazie, buon viaggio”. “A lei.”.
Senza accorgersene, mentre era oramai quasi giunto a destinazione, Marco si ritrovò con la mente nella sua piccola camera di Bologna, quella che aveva affittato e divideva con altri studenti. Infatti, nell’autunno del 1978 si era trasferito là per studiare storia all’università. Vale si era iscritta a Economia e Commercio, obbligata dal padre, e nonostante le promesse d’amore eterno si erano un po’ allontanati. Così come si erano incamminati su altre strade gli altri amici del liceo, dove era anche rimasto, ormai titolare di cattedra, il professore. Nella città emiliana, un po’ come nel resto del paese, in quegli anni le persone con il genere di idee di Marco non avevano difficoltà a riconoscersi nell’ambiente universitario.
I tempi e i luoghi però erano diversi, e anche le persone cambiano. In quel marasma fecondo di idee e intuizioni, tra tutte prevalse quella che pareva la più ardita.
Marco ora si rivede in quella via buia, vestito di nero e con una sciarpa dello stesso colore pronta a essere tirata sugli occhi. Le mani e la fronte sudata di chi sa che ciò che sta per succedere cambierà la vita di molte persone, e si illude la cambierà in meglio. La pistola carica e fredda tra le mani. Poi un segnale da un’altra ombra nera appoggiata con indifferenza vicina a un portone. Un uomo che esce con una valigia in mano e un impermeabile sul braccio. Marco risente la propria mano che si alza, l’occhio che segue la canna, poi un colpo. Al cuore. Di entrambi.
Il treno è arrivato in stazione. Marco ancora sconvolto da quello che sa fin troppo bene non essere un incubo. Ha la fronte sudata e i capelli bagnati vicino alle orecchie. Si alza, afferra la sua borsa si dirige alla porta del vagone. Scende e un brivido percorre il suo corpo mentre si avvia sulla banchina della stazione. Non è il freddo.
Dopo quasi vent’anni da quella sera, ritorna in Italia dalla Francia, e lo fa per il funerale della madre. Ma non potrà neanche presentarvisi come il figlio;dovrà accontentarsi di vederlo da lontano, sperando che nessuno lo riconosca. Nel frattempo infatti ha cambiato nome, data di nascita, è un’altra persona o forse è solo più un fuggitivo come tanti. Per lo stesso motivo al funerale del padre non poté nemmeno venire. La sua vera vita è finita a vent’anni, in quel vicolo e in compagnia di quella dama dall’occhio nero che il colpo più forte l’ha sparato al suo cuore.
Marco non è mai esistito che nella mente e nella fantasia di una giovane studentessa italiana , seduta in un vagone che la deve riportare a casa da Parigi e affascinata da uno sconosciuto e casuale compagno di viaggio che le siede davanti.
Marco è esistito come protagonista, però, della storia di questo nostro Paese: con tanti nomi e tanti volti, tante bandiere. La memoria non è una forma di assoluzione.
lunedì 5 gennaio 2009
Improvviso pensiero d'amore
Corsa frettolosa e insensata
Dominate, incosciente
preso dalla vita, questo vuol dire?
Calmarsi poi di colpo,
lasciarsi dominare dal sentimento
profondo estraneo e tuo.
Vivo morto, presente assente
sogni materiali e pensieri che si infrangono
troppo per venire da dentro.
Complicazioni inutili e persistenti
vaganti e cadenti e pesanti
in un essere misto alla pioggia,
benedizione della sera che lo bagna.
Sentire dall’anima e dal corpo
insieme, distinti e isolati, testa pensante
rumori scritti col sangue.
Lentamente infine la mente
si aziona a fatica di nuovo.
Stanchezza e non senso,
ricerca dentro e fuori senza riscontro.
Nonostante tutto, per tutto,
si riparte dal via.
Dominate, incosciente
preso dalla vita, questo vuol dire?
Calmarsi poi di colpo,
lasciarsi dominare dal sentimento
profondo estraneo e tuo.
Vivo morto, presente assente
sogni materiali e pensieri che si infrangono
troppo per venire da dentro.
Complicazioni inutili e persistenti
vaganti e cadenti e pesanti
in un essere misto alla pioggia,
benedizione della sera che lo bagna.
Sentire dall’anima e dal corpo
insieme, distinti e isolati, testa pensante
rumori scritti col sangue.
Lentamente infine la mente
si aziona a fatica di nuovo.
Stanchezza e non senso,
ricerca dentro e fuori senza riscontro.
Nonostante tutto, per tutto,
si riparte dal via.
martedì 5 agosto 2008
multisensorialità
Fugace parola nata nell’angolo di un occhio
Astratto concetto figlio di un’idea concreta
Mentali percorsi più lunghi di me
Astrazioni fatte di parole, parole fatte di idee, idee fatte da suoni
l’uomo, la donna, il bene e il male, il semaforo.
Gia verde e rosso,
il giallo ininfluente passaggio forma di un dinamismo falso.
Astratto concetto figlio di un’idea concreta
Mentali percorsi più lunghi di me
Astrazioni fatte di parole, parole fatte di idee, idee fatte da suoni
l’uomo, la donna, il bene e il male, il semaforo.
Gia verde e rosso,
il giallo ininfluente passaggio forma di un dinamismo falso.
Innamoramento
Come un continuo, profondo denso sentire
Come un istante sparato nell’assoluto
Come un cane che ulula ad un ombra intravista in una sera buia
Come un impressione mai confermata
Come un città spazzata dal vento
Come un uomo che guarda la sua donna
Come un amore nuovo che nasce in fondo al cuore.
Come un istante sparato nell’assoluto
Come un cane che ulula ad un ombra intravista in una sera buia
Come un impressione mai confermata
Come un città spazzata dal vento
Come un uomo che guarda la sua donna
Come un amore nuovo che nasce in fondo al cuore.
V.
La sento che scivola sotto le dita come un velo di seta
Nelle gambe come la corrente di un calmo torrente
Nel viso come un caldo vento che asciuga le lacrime
A volte la sento nel sonno
A volte la sento all’improvviso
come un macigno che cade dall’alto
A volte la sento sempre è con me.
Io Vivo.
Nelle gambe come la corrente di un calmo torrente
Nel viso come un caldo vento che asciuga le lacrime
A volte la sento nel sonno
A volte la sento all’improvviso
come un macigno che cade dall’alto
A volte la sento sempre è con me.
Io Vivo.
Inquietudine
Un senso lasso e profondo
sordo e malcelato in un animo inquieto
di un uomo che percepisce se stesso
nello scorrere normale del tempo moderno
sordo e malcelato in un animo inquieto
di un uomo che percepisce se stesso
nello scorrere normale del tempo moderno
Bus
Lingue straniere, suoni sincopati per accenti estranei
Una ragazza arancione e una borsa rossa
La sua, la mia la loro vita, esposte al delirio luccicante
di una città all’imbrunire.
Ma il traffico rallenta…
E’ già tardi…le loro vite anch’esse potrebbero rallentare
STOP. FERMATA.
Era solo un’illusione.
Una ragazza arancione e una borsa rossa
La sua, la mia la loro vita, esposte al delirio luccicante
di una città all’imbrunire.
Ma il traffico rallenta…
E’ già tardi…le loro vite anch’esse potrebbero rallentare
STOP. FERMATA.
Era solo un’illusione.
sabato 12 luglio 2008
La lettera
Sei e mezza, l’ora stampata sulle lancette dell’orologio del campanile. L’enorme mole del duomo si proiettava sulla piazza colpita dal sole vespertino, mentre nelle vie tutto intorno, tante persone, strette in cappotti e pellicce, si dirigevano verso casa. La dottoressa Martina Wegener si è appena alzata dalla scrivania posta proprio davanti alla finestra. Da più di quarant’anni quelle due camere, dai soffitti affrescati e dalle porte di legno ottocentesco, affacciate su piazza del duomo di Trento, sono la sua casa. Uno sguardo fuori, ai monti imbiancati che contornano la città. D’un tratto si sentì stanca. Ormai i suoi ottant’anni si fanno sentire. Pensò per un attimo a quante volte avesse lavorato per giorni interi, senza concedersi un po’ d’aria, vicino a quello stesso austero tavolo di legno. Notti insonni alla ricerca di una frase, di una parola o anche solo di un segno di punteggiatura che potesse rendere più gradevole una pagina del suo ultimo romanzo. E’ oggi una scrittrice famosa e una docente universitaria amata da generazioni di studenti di lettere antiche. La sua testa bianca per lo chignon che ne costituisce il punto più alto, unita alle candide camicie ricamate che indossa quasi sempre, dona alla sua figura un non so che di austero e familiare al contempo.
Con gli stessi gesti di sempre, si avviò a chiudere le persiane, spense la lampada Tiffany, dono di un caro amico, che da anni illumina il gesto della sua mano sul foglio bianco e aprì la porta. Già aveva chiuso il vecchio uscio cigolante quando vide una lettera nella cassetta della posta. In quel momento si ricordò di aver lasciato gli occhiali sul tavolo. Senza quell’aiuto non avrebbe potuto leggerla. Rientrò quindi nello studio; solo poca luce entrava attraverso le feritoie delle persiane chiuse. Prese gli occhiali dal tavolo e sprofondò nella poltrona di pelle che stava nell’angolo della camera. Aprì la busta che non riportava alcun mittente e ne scrutò il contenuto. Era un foglio di carta azzurra e leggera, scritto fitto fitto con una grafia da ragazzo. Una lunga lettera d’amore. Di quelle che si scrivono quando si hanno sedici anni, lo sguardo dell’uomo grande e le risorse del bambino. Era chiaro che non fosse per lei. Probabilmente il postino aveva confuso le cassette. Da qualche tempo incontrava spesso una ragazzetta bionda. Doveva essere la figlia della sig.ra Stanmdam. Una donna gentile ed elegante, un avvocato qualcuno le aveva detto, che da poche settimane si era trasferita nell’appartamento vicino al suo studio. Sicuramente era la giovane la destinataria e l’ispiratrice della lettera.
Se da un lato avrebbe voluto chiudere il foglio, così per un senso di naturale discrezione verso un sentimento tanto puro, dall’altro fu presa da una sorta di forza che la spinse ad arrivare in fondo. In un attimo arrivò all’ultima riga, e poi alla firma. Diceva solo Tuo Stephan.
In quel momento la linea del tempo, che si dispiega lunga, raccogliendo ogni secondo della vita di ogni uomo, si riavvolse. La mente di Martina era già ben al di là della porta del suo studio. Era alla sua camera di ragazza. Nella casa dei suoi genitori, là su in quel paesino sulla montagna. Era tutto come allora: i mobili di larice costruiti da suo nonno nelle giornate d’inverno, quando non si poteva andare nei boschi. Semplici e lisci come gli aghi dell’albero da cui sono stati ricavati. E poi il balcone che guarda verso la campagna. Risentì di nuovo dopo tanti anni lo scampanare delle capre che tornano, come ogni sera nella stalla. Lei è sul letto. Tra le mani un fazzoletto pieno di lacrime. Sta leggendo una lettera. Forse quella di allora non era di carta azzurra, ma in quel momento la ricordò così. Anzi l’ha già letta e riletta più volte. Iniziava come tante altre che Stephan le aveva scritto. Piena di complimenti dolci e di promesse di amore. Con quel ragazzo con i capelli rossi sempre spettinati erano cresciuti insieme. A separare i masi, le cascine tradizionali trentine, delle loro due famiglie, solo poche spanne di terra. La prima volta che si erano guardati negli occhi, forse, nessuno dei due aveva già imparato a camminare. Poi gli anni erano passati, loro sempre insieme. A correre e a giocare tra sassi e alberi. Oppure andare a scuola con la slitta, come si faceva in inverno quando la neve era caduta abbondante sulla valle. Insieme,ancora, la sera prima di quella lettera, sotto il portico della casa di Martina a immaginare come avrebbero fatto a stare lontani l’’uno dall’altro. Lei infatti due giorni più tardi sarebbe partita per andare a vivere a Trento, dalla zia Geltrude, per continuare a studiare. E là sarebbe tornata solo l’estate successiva, per le vacanze. Come le signorine di Bolzano, le villeggianti con l’ombrellino e i vestiti bianchi, aveva detto lui per indispettirla. Avevano però rimandato i saluti alla sera successiva. Invece al posto di Stephan, la sera dopo, era arrivata solo la sua lettera. Diceva che non sarebbe venuto a salutarla. Perché era troppo triste, e anche troppo arrabbiato con lei che se ne andava. Lei che, senza preoccuparsi troppo, distruggeva il loro futuro. In quei giorni c’era in un paese vicino una fiera, Stephan aveva deciso di andarci per aiutare lo zio a portare la mercanzia e ci sarebbe rimasto per tre giorni.
Martina parti la mattina dopo. Alle otto in punto con la corriera. E ancora piangeva mentre salutava i suoi genitori. La prima cosa che fece arrivata a Bolzano fu di scrivere al suo ragazzo dai capelli rossi. Una risposta a quella sua ultima missiva,però, non la ebbe mai. Qualcuno tra i parenti mesi dopo, venendo a farle visita in città, le disse che Stephan era dovuto partire per il servizio militare, forse prima ancora di aver ricevuto la sua lettera. La guerra era nell’aria da tempo, e scoppiò come un temporale proprio in quei giorni. Di quel ragazzo coi capelli rossi non si ricorda più nulla in paese, se non che è uno dei tanti fantasmi di un inutile massacro.
Finalmente il tempo si riprese quello che gli apparteneva e la dottoressa Wegener riuscì finalmente chiudere la lettera. Le sue guance erano ormai cariche di lacrime e le rughe sottili, che scavavano quel viso magro, erano piccoli rivoli d’acqua. Solo dopo qualche minuto riuscì ad alzarsi. La prima cosa che le venne in mente fu di guardare la busta, lasciata sulla scrivania. Chi era il destinatario della lettera? La sollevò con la mano leggermente tremolante. Era una busta senza francobollo. Probabilmente di qualcuno che invece che spedirla aveva preferito portarla a mano. Nella stessa scrittura incerta della pagina che aveva appena letto c’era scritto solo un nome: Martina.
Con gli stessi gesti di sempre, si avviò a chiudere le persiane, spense la lampada Tiffany, dono di un caro amico, che da anni illumina il gesto della sua mano sul foglio bianco e aprì la porta. Già aveva chiuso il vecchio uscio cigolante quando vide una lettera nella cassetta della posta. In quel momento si ricordò di aver lasciato gli occhiali sul tavolo. Senza quell’aiuto non avrebbe potuto leggerla. Rientrò quindi nello studio; solo poca luce entrava attraverso le feritoie delle persiane chiuse. Prese gli occhiali dal tavolo e sprofondò nella poltrona di pelle che stava nell’angolo della camera. Aprì la busta che non riportava alcun mittente e ne scrutò il contenuto. Era un foglio di carta azzurra e leggera, scritto fitto fitto con una grafia da ragazzo. Una lunga lettera d’amore. Di quelle che si scrivono quando si hanno sedici anni, lo sguardo dell’uomo grande e le risorse del bambino. Era chiaro che non fosse per lei. Probabilmente il postino aveva confuso le cassette. Da qualche tempo incontrava spesso una ragazzetta bionda. Doveva essere la figlia della sig.ra Stanmdam. Una donna gentile ed elegante, un avvocato qualcuno le aveva detto, che da poche settimane si era trasferita nell’appartamento vicino al suo studio. Sicuramente era la giovane la destinataria e l’ispiratrice della lettera.
Se da un lato avrebbe voluto chiudere il foglio, così per un senso di naturale discrezione verso un sentimento tanto puro, dall’altro fu presa da una sorta di forza che la spinse ad arrivare in fondo. In un attimo arrivò all’ultima riga, e poi alla firma. Diceva solo Tuo Stephan.
In quel momento la linea del tempo, che si dispiega lunga, raccogliendo ogni secondo della vita di ogni uomo, si riavvolse. La mente di Martina era già ben al di là della porta del suo studio. Era alla sua camera di ragazza. Nella casa dei suoi genitori, là su in quel paesino sulla montagna. Era tutto come allora: i mobili di larice costruiti da suo nonno nelle giornate d’inverno, quando non si poteva andare nei boschi. Semplici e lisci come gli aghi dell’albero da cui sono stati ricavati. E poi il balcone che guarda verso la campagna. Risentì di nuovo dopo tanti anni lo scampanare delle capre che tornano, come ogni sera nella stalla. Lei è sul letto. Tra le mani un fazzoletto pieno di lacrime. Sta leggendo una lettera. Forse quella di allora non era di carta azzurra, ma in quel momento la ricordò così. Anzi l’ha già letta e riletta più volte. Iniziava come tante altre che Stephan le aveva scritto. Piena di complimenti dolci e di promesse di amore. Con quel ragazzo con i capelli rossi sempre spettinati erano cresciuti insieme. A separare i masi, le cascine tradizionali trentine, delle loro due famiglie, solo poche spanne di terra. La prima volta che si erano guardati negli occhi, forse, nessuno dei due aveva già imparato a camminare. Poi gli anni erano passati, loro sempre insieme. A correre e a giocare tra sassi e alberi. Oppure andare a scuola con la slitta, come si faceva in inverno quando la neve era caduta abbondante sulla valle. Insieme,ancora, la sera prima di quella lettera, sotto il portico della casa di Martina a immaginare come avrebbero fatto a stare lontani l’’uno dall’altro. Lei infatti due giorni più tardi sarebbe partita per andare a vivere a Trento, dalla zia Geltrude, per continuare a studiare. E là sarebbe tornata solo l’estate successiva, per le vacanze. Come le signorine di Bolzano, le villeggianti con l’ombrellino e i vestiti bianchi, aveva detto lui per indispettirla. Avevano però rimandato i saluti alla sera successiva. Invece al posto di Stephan, la sera dopo, era arrivata solo la sua lettera. Diceva che non sarebbe venuto a salutarla. Perché era troppo triste, e anche troppo arrabbiato con lei che se ne andava. Lei che, senza preoccuparsi troppo, distruggeva il loro futuro. In quei giorni c’era in un paese vicino una fiera, Stephan aveva deciso di andarci per aiutare lo zio a portare la mercanzia e ci sarebbe rimasto per tre giorni.
Martina parti la mattina dopo. Alle otto in punto con la corriera. E ancora piangeva mentre salutava i suoi genitori. La prima cosa che fece arrivata a Bolzano fu di scrivere al suo ragazzo dai capelli rossi. Una risposta a quella sua ultima missiva,però, non la ebbe mai. Qualcuno tra i parenti mesi dopo, venendo a farle visita in città, le disse che Stephan era dovuto partire per il servizio militare, forse prima ancora di aver ricevuto la sua lettera. La guerra era nell’aria da tempo, e scoppiò come un temporale proprio in quei giorni. Di quel ragazzo coi capelli rossi non si ricorda più nulla in paese, se non che è uno dei tanti fantasmi di un inutile massacro.
Finalmente il tempo si riprese quello che gli apparteneva e la dottoressa Wegener riuscì finalmente chiudere la lettera. Le sue guance erano ormai cariche di lacrime e le rughe sottili, che scavavano quel viso magro, erano piccoli rivoli d’acqua. Solo dopo qualche minuto riuscì ad alzarsi. La prima cosa che le venne in mente fu di guardare la busta, lasciata sulla scrivania. Chi era il destinatario della lettera? La sollevò con la mano leggermente tremolante. Era una busta senza francobollo. Probabilmente di qualcuno che invece che spedirla aveva preferito portarla a mano. Nella stessa scrittura incerta della pagina che aveva appena letto c’era scritto solo un nome: Martina.
mercoledì 25 giugno 2008
genesi 32, 23-33...anche le vittorie lasciano il segno...
]Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok. [24]Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi. [25]Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. [26]Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore e l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. [27]Quegli disse: "Lasciami andare, perché è spuntata l'aurora". Giacobbe rispose: "Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!". [28]Gli domandò: "Come ti chiami?". Rispose: "Giacobbe". [29]Riprese: "Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!". [30]Giacobbe allora gli chiese: "Dimmi il tuo nome". Gli rispose: "Perché mi chiedi il nome?". E qui lo benedisse. [31]Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel "Perché - disse - ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva". [32]Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all'anca. [33]Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l'articolazione del femore, perché quegli aveva colpito l'articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico.
giovedì 15 maggio 2008
TEMPO
18.12, l’ora di quella sera guardata di sfuggita sullo schermetto azzurro del cellulare, illuminato per un attimo dal rapido gesto di un dito su una tastiera conosciuta a memoria. L’ora della mia nascita, pensai subito. Chissà quante altre sere l’ho letta tornando a casa da qualche posto sul quadrante dell’orologio e mai ci ho badato. Una strana sensazione mi avvolge come a sottolineare che il tempo è qualcosa che ci appartiene, uno strano modo per tenere il conto di noi stessi e delle nostre azioni. Strumento che in realtà si fa sostanza ogni volta che lo sentiamo stringerci al collo; quando arriviamo tardi ad un grande appuntamento, oppure troppo presto. Il senso delle cose è dato quasi sempre dal prima e dal dopo. Senza di questi il fatto non avrebbe importanza. Nessun fatto. Lo sa bene l’animale selvatico, la preda per lui non è che la conseguenza dell’arte della caccia che gli viene dal suo passato, e il cibarsi della preda conquistata non sempre è scontato. Sono quasi arrivato sotto casa, penso alle mie gambe che camminano senza fretta e senza che io le percepisca, pensate a quanto tempo un uomo passerebbe a pensare a camminare se le sue gambe non si sapessero muovere da sole. Inconsciamente si dice, schemi motori. Per un attimo però, quasi come una persona che viaggiando in un corridoio con tante porte si distragga un attimo e apra quella sbagliata, le mie gambe si portano alla mia coscienza. Sembrano esprimermi la voglia di camminare ancora, di non ritornare a scaricare la gravità del mio corpo su una sedia, di non perdersi tra le molli pieghe dei nuovi cuscini arancione di cui da qualche giorno ho dotato la vecchia impagliatura sfilacciata delle seggiole della mia cucina. Per un secondo, dicevo, sembrano ricordarsi di discendere da quelle forti gambe muscolose che dovevano avere i nostri antenati che ogni giorno le allenavano con la fatica.
Decido di dare loro ascolto. Passo oltre la porta di casa, rimetto in tasca le chiavi che avevo tirato fuori con un gesto meccanico qualche passo prima. Senza pensare cammino, alzo gli occhi quanto basta per vedere un bambino affacciato ad un balcone. Quasi mi spavento, sembra così piccolo che quasi si direbbe poter passare tra le sbarre. Provo a interrogare la mia mente sui ricordi del mio passato. Quanto è rimasto di me a tre anni all’interno della mia mente? Qualcuno dice che niente va perduto perché tutto concorre a farci essere come siamo adesso. Questa sera mi permetto di dissentire: chissà quante cose che importanti, che mi hanno fatto ridere e piangere, cose che mi hanno fatto magari disperare o battere forte il cuore come solo quello di un bambino sa fare, ho dimenticato? Non lo so, però mi coglie un profondo senso di tristezza. Per la seconda volta in pochi minuti mi ritorna in mente il tempo. Questa volta ha cambiato faccia: è un grosso orologio, massiccio e rigido per nulla simile a quelli di Dalì. E in mezzo, il grosso perno pesante quello che tiene ferme le lancette. E’ un istante e provo a immaginare cose succederebbe se per un attimo quel grosso punto fisso si sciogliesse e le lancette fossero libere di muoversi in ogni direzione. Tutto sarebbe un gran caos. Non solo il dopo prederebbe senso rispetto al prima. Ma non si saprebbe più niente. E’ quasi impossibile da immaginare. Credo che sia per questo che gli orologi hanno un perno e soprattutto le lancette la punta. Per evitare che una si giri a guardare il centro. Come gli occhi in un uomo: non sono fatti per guardarsi all’interno. Mi rendo conto per un attimo che sto veramente vaneggiando, però sono stanco ma ancora non ho voglia di tornare a casa:decido di allungare ancora un po’ la strada con l’intenzione di guardare qualche vetrina. Sento tirare la tracolla della borsa e il suono di un saluto sembra riportarmi sulla terra. Rispondo voltandomi indietro per vedere di chi si tratta. La voce non mi era familiare. Il volto invece si, Ilaria una ragazza che studiava nel mio stesso liceo. Avevo saputo qualche tempo prima da un amico che si era trasferita nel mio stesso quartiere. Mi era anche sembrato di vederla passare una sera mentre ero affacciato alla finestra. E’ davvero tanto che non la vedo, mi ricordo che per un certo periodo ci eravamo anche visti spesso a causa di comuni amici. Mi accorgo solo dopo qualche minuto di conversazione che ci troviamo davanti a un bar: mi sembra gentile offrirle un caffè. Entriamo nel bar, ordino al barista e ci sediamo a un tavolino vicino alla vetrina, uno davanti all’altro. Per dieci minuti ci raccontiamo cosa ci è successo negli ultimi mesi in cui non ci siamo visti. Ci diciamo le solite cose scontate su come sia facile perdersi di vista e ci promettiamo che ci saremmo rivisti presto. Ad un certo punto mentre lei continua a parlarmi della sua tesi appena iniziata mi sorprendo distratto. Come se da fuori mi vedessi dentro una scena di un film. Sento le sue parole, vedo la sua bocca muoversi ma in realtà nulla mi colpisce. Tutto rimbalza. Ancora una volta penso al tempo. A come a volte dovremmo chiamarlo al plurale: tempi. A ognuno di noi credo sia successo nella vita di sentirsi come diviso, con una parte del suo corpo in un luogo e una parte in un'altro. Perché alla fine tempo e luogo sono un po’ sinonimi, o almeno l’uno esiste in virtù dell’altro. E viceversa. Un luogo vive come tale perché c’è un tempo che lo caratterizza. Un palazzo è tale quando ad un certo punto della linea del tempo cessa di essere mattoni, cemento, vetro, mobili e smette di esserlo quando ritorna a essere tutte quelle cose. Unione e separazione, questo fa il tempo. Ritorno a intendere le sue parole. Come per magia non sono più un suono ma hanno ripreso significato. Ora mi sta parlando del suo ex fidanzato. L’ha lasciato lei l’altro giorno. Ride. Ma mentre ride due grosse lacrime le scendono sul volto. Mi interesso al suo racconto. Con un gesto inconscio ( quanto è diverso dal camminare) prendo la sua mano nella mia. E’ fredda e bagnata. Mi dice che l’ha lasciato perché l’ha beccato con un'altra. Cerco di farla ridere con qualche battuta idiota. Ci riesco o almeno così mi sembra. Si è fatto tardi. Usciamo dal bar, lei ha un brivido. Le porgo il mio cappotto che tenevo sul braccio. Penso che fa caldo e che finalmente ci stiamo avviando verso la primavera. Glielo dico, lei annuisce. In effetti era una frase banale. Si poteva fare di meglio. Camminiamo appena pochi passi: ora le mie gambe sono tornate incoscienti. Ci fermiamo senza accorgercene davanti a un portone. E’ quello di casa sua. Continuiamo a parlare. I mesi passati dal nostro ultimo incontro sembrano essere spariti. Di nuovo, sempre loro: il tempo, la coscienza, la memoria. Questa volta però mi passano per la testa rapidamente. Non mi ci soffermo. Continuo a parlare, sempre più libero. Come se avessi davanti qualcuno che mi conosce bene. Cominciamo a scherzare. E comincia a fare freddo. Un brivido sottile mi scuote. Lei se ne accorge, mi chiede se rivoglio il cappotto. Rifiuto, poi sarebbe lei ad aver freddo dico. Il tempo che prima sembrava volermi tener lontano da lei, ora rallenta. Ogni parola, ogni gesto minimo dei nostri due corpi sembra essere percepito profondamente. Come allungando i tempi della vita al rallentatore. Lei abbassa gli occhi nella borsa e cerca le chiavi. Con un sorriso leggero si scusa per avermi fatto perdere tempo. Guardo di nuovo il cellulare, questa volta con un gesto più ampio, misurato. Sono le 19.40. Non ho impegni quella sera dico. Mentre già è oltre la soglia mi chiede se voglio salire. Rispondo quando già ho un piede sullo scalino. La mano mi scivola lenta sulla sua schiena, con un gesto di protezione. Me ne accorgo solo dopo averlo fatto. Ora sento che il tempo accelera. Lei si appoggia alla mia mano, tanto che non oso ritrarla. Due piani di scale fatti così uno appoggiato all’altro. Mentre apre la porta mi ritraggo un attimo, per un attimo mi chiedo perché mi trovo in quel posto. Lei mi guarda. Sento di nuovo il tempo che accelera. Mi avvicino a lei, trovo le sue labbra. Intanto le sue mani si sono strette dietro di me. Dietro le mie spalle la porta si chiude, con un rumore che mi sembra lontano. Nella mente più nulla, cadiamo sul divano. Ora anche i miei battiti accelerano, a fondo. Il nostro cuore sa fare quello che gli occhi non sanno fare. Calore e sogno, a occhi chiusi. Due corpi l’uno sull’altro. Due orologi che per un attimo hanno l’illusione di scambiarsi le lancette. Senza più i perni. La mente svuotata dai tanti pensieri di qualche minuto prima. Voglia di non si sa bene cosa. Mentre facciamo l’amore, è un attimo, ma lo sento. Il tempo è arrivato alla sua massima velocità. Immagine di molle che saltano e ingranaggi che si spezzano in macchine troppo complicate. Poi la quiete. Lentamente il cuore ritorna a battere con calma, mentre stiamo abbracciati. Gli occhi mi cadono sul pavimento, mentre li stacco per un attimo dal suo corpo che respira forte. I vestiti per terra, prova che le cose esistono in virtù del prima e del dopo. Soprattutto del dopo. Il tempo inizia anche lui a rallentare, ogni tanto ancora si riprende e accelera. Senza la forza di prima. Qualche bacio e qualche carezza. Un pensiero si fa largo nella mia testa. Inizio a chiedermi cosa significhi quello che è stato. Sento ancora il tempo rallentare. Con lui se ne vanno le mie forze. Mi sento stanco. Lei mi guarda e sorride, mi sembra quasi sciocca. Cosa c’è da ridere penso. Come fai a essere felice se solo mezz’ora fa piangevi per lui che ti aveva tradita. Non so darmi una risposta. Incolpo ancora una volta il tempo, che è capace di alterare le reali dimensioni delle cose. Che poi se cambiano sempre quelle reali non esistono. Sto nuovamente guardando me stesso attraverso un televisore. Dico che sono stanco e qualche altra banalità. Raccolgo nel frattempo i miei vestiti. Me li infilo uno dopo l’altro lentamente, lei guarda fuori dalla finestra. Poche luci attraversano ogni tanto il buio. A quell’ora in quella piccola via c’è poco traffico. Lei non dice nulla e io neanche. Prima di andarmene le chiedo a cosa sta pensando. Mi risponde che non sa se questa sera sia stata un inizio o una fine. Le dico che neanche io lo so. Che farebbe bene a riposare e domani ci penseremo. Mi torna in mente la storia del dopo che da senso alle cose: non trovo la voglia di spiegargliela. Esco. L’aria si è fatta fredda. Tiro su il colletto del cappotto. I pochi passi che mi separano da casa mia sembrano non finire più. Cerco nella mia mente vecchi ricordi di Ilaria. Quasi non ne trovo. Il tempo ora è sempre più lento. Arrivo in casa. Sono stanco. Mi spoglio lentamente e mi ritrovo nel letto. Sento il sonno che mi avvolge. Lo lascio fare. Per i pensieri ci sarà tempo domani. Prima di dormire mi si presenta un ultima immagine. Il grosso orologio di prima ora è avvolto in una nuvola, come la cima di quelle montagne che si vedono nei libri di fiabe. Sotto il grosso perno c’è una bocca e a questa arriva una strada. Ho voglia di camminare e la bocca sorride.
Decido di dare loro ascolto. Passo oltre la porta di casa, rimetto in tasca le chiavi che avevo tirato fuori con un gesto meccanico qualche passo prima. Senza pensare cammino, alzo gli occhi quanto basta per vedere un bambino affacciato ad un balcone. Quasi mi spavento, sembra così piccolo che quasi si direbbe poter passare tra le sbarre. Provo a interrogare la mia mente sui ricordi del mio passato. Quanto è rimasto di me a tre anni all’interno della mia mente? Qualcuno dice che niente va perduto perché tutto concorre a farci essere come siamo adesso. Questa sera mi permetto di dissentire: chissà quante cose che importanti, che mi hanno fatto ridere e piangere, cose che mi hanno fatto magari disperare o battere forte il cuore come solo quello di un bambino sa fare, ho dimenticato? Non lo so, però mi coglie un profondo senso di tristezza. Per la seconda volta in pochi minuti mi ritorna in mente il tempo. Questa volta ha cambiato faccia: è un grosso orologio, massiccio e rigido per nulla simile a quelli di Dalì. E in mezzo, il grosso perno pesante quello che tiene ferme le lancette. E’ un istante e provo a immaginare cose succederebbe se per un attimo quel grosso punto fisso si sciogliesse e le lancette fossero libere di muoversi in ogni direzione. Tutto sarebbe un gran caos. Non solo il dopo prederebbe senso rispetto al prima. Ma non si saprebbe più niente. E’ quasi impossibile da immaginare. Credo che sia per questo che gli orologi hanno un perno e soprattutto le lancette la punta. Per evitare che una si giri a guardare il centro. Come gli occhi in un uomo: non sono fatti per guardarsi all’interno. Mi rendo conto per un attimo che sto veramente vaneggiando, però sono stanco ma ancora non ho voglia di tornare a casa:decido di allungare ancora un po’ la strada con l’intenzione di guardare qualche vetrina. Sento tirare la tracolla della borsa e il suono di un saluto sembra riportarmi sulla terra. Rispondo voltandomi indietro per vedere di chi si tratta. La voce non mi era familiare. Il volto invece si, Ilaria una ragazza che studiava nel mio stesso liceo. Avevo saputo qualche tempo prima da un amico che si era trasferita nel mio stesso quartiere. Mi era anche sembrato di vederla passare una sera mentre ero affacciato alla finestra. E’ davvero tanto che non la vedo, mi ricordo che per un certo periodo ci eravamo anche visti spesso a causa di comuni amici. Mi accorgo solo dopo qualche minuto di conversazione che ci troviamo davanti a un bar: mi sembra gentile offrirle un caffè. Entriamo nel bar, ordino al barista e ci sediamo a un tavolino vicino alla vetrina, uno davanti all’altro. Per dieci minuti ci raccontiamo cosa ci è successo negli ultimi mesi in cui non ci siamo visti. Ci diciamo le solite cose scontate su come sia facile perdersi di vista e ci promettiamo che ci saremmo rivisti presto. Ad un certo punto mentre lei continua a parlarmi della sua tesi appena iniziata mi sorprendo distratto. Come se da fuori mi vedessi dentro una scena di un film. Sento le sue parole, vedo la sua bocca muoversi ma in realtà nulla mi colpisce. Tutto rimbalza. Ancora una volta penso al tempo. A come a volte dovremmo chiamarlo al plurale: tempi. A ognuno di noi credo sia successo nella vita di sentirsi come diviso, con una parte del suo corpo in un luogo e una parte in un'altro. Perché alla fine tempo e luogo sono un po’ sinonimi, o almeno l’uno esiste in virtù dell’altro. E viceversa. Un luogo vive come tale perché c’è un tempo che lo caratterizza. Un palazzo è tale quando ad un certo punto della linea del tempo cessa di essere mattoni, cemento, vetro, mobili e smette di esserlo quando ritorna a essere tutte quelle cose. Unione e separazione, questo fa il tempo. Ritorno a intendere le sue parole. Come per magia non sono più un suono ma hanno ripreso significato. Ora mi sta parlando del suo ex fidanzato. L’ha lasciato lei l’altro giorno. Ride. Ma mentre ride due grosse lacrime le scendono sul volto. Mi interesso al suo racconto. Con un gesto inconscio ( quanto è diverso dal camminare) prendo la sua mano nella mia. E’ fredda e bagnata. Mi dice che l’ha lasciato perché l’ha beccato con un'altra. Cerco di farla ridere con qualche battuta idiota. Ci riesco o almeno così mi sembra. Si è fatto tardi. Usciamo dal bar, lei ha un brivido. Le porgo il mio cappotto che tenevo sul braccio. Penso che fa caldo e che finalmente ci stiamo avviando verso la primavera. Glielo dico, lei annuisce. In effetti era una frase banale. Si poteva fare di meglio. Camminiamo appena pochi passi: ora le mie gambe sono tornate incoscienti. Ci fermiamo senza accorgercene davanti a un portone. E’ quello di casa sua. Continuiamo a parlare. I mesi passati dal nostro ultimo incontro sembrano essere spariti. Di nuovo, sempre loro: il tempo, la coscienza, la memoria. Questa volta però mi passano per la testa rapidamente. Non mi ci soffermo. Continuo a parlare, sempre più libero. Come se avessi davanti qualcuno che mi conosce bene. Cominciamo a scherzare. E comincia a fare freddo. Un brivido sottile mi scuote. Lei se ne accorge, mi chiede se rivoglio il cappotto. Rifiuto, poi sarebbe lei ad aver freddo dico. Il tempo che prima sembrava volermi tener lontano da lei, ora rallenta. Ogni parola, ogni gesto minimo dei nostri due corpi sembra essere percepito profondamente. Come allungando i tempi della vita al rallentatore. Lei abbassa gli occhi nella borsa e cerca le chiavi. Con un sorriso leggero si scusa per avermi fatto perdere tempo. Guardo di nuovo il cellulare, questa volta con un gesto più ampio, misurato. Sono le 19.40. Non ho impegni quella sera dico. Mentre già è oltre la soglia mi chiede se voglio salire. Rispondo quando già ho un piede sullo scalino. La mano mi scivola lenta sulla sua schiena, con un gesto di protezione. Me ne accorgo solo dopo averlo fatto. Ora sento che il tempo accelera. Lei si appoggia alla mia mano, tanto che non oso ritrarla. Due piani di scale fatti così uno appoggiato all’altro. Mentre apre la porta mi ritraggo un attimo, per un attimo mi chiedo perché mi trovo in quel posto. Lei mi guarda. Sento di nuovo il tempo che accelera. Mi avvicino a lei, trovo le sue labbra. Intanto le sue mani si sono strette dietro di me. Dietro le mie spalle la porta si chiude, con un rumore che mi sembra lontano. Nella mente più nulla, cadiamo sul divano. Ora anche i miei battiti accelerano, a fondo. Il nostro cuore sa fare quello che gli occhi non sanno fare. Calore e sogno, a occhi chiusi. Due corpi l’uno sull’altro. Due orologi che per un attimo hanno l’illusione di scambiarsi le lancette. Senza più i perni. La mente svuotata dai tanti pensieri di qualche minuto prima. Voglia di non si sa bene cosa. Mentre facciamo l’amore, è un attimo, ma lo sento. Il tempo è arrivato alla sua massima velocità. Immagine di molle che saltano e ingranaggi che si spezzano in macchine troppo complicate. Poi la quiete. Lentamente il cuore ritorna a battere con calma, mentre stiamo abbracciati. Gli occhi mi cadono sul pavimento, mentre li stacco per un attimo dal suo corpo che respira forte. I vestiti per terra, prova che le cose esistono in virtù del prima e del dopo. Soprattutto del dopo. Il tempo inizia anche lui a rallentare, ogni tanto ancora si riprende e accelera. Senza la forza di prima. Qualche bacio e qualche carezza. Un pensiero si fa largo nella mia testa. Inizio a chiedermi cosa significhi quello che è stato. Sento ancora il tempo rallentare. Con lui se ne vanno le mie forze. Mi sento stanco. Lei mi guarda e sorride, mi sembra quasi sciocca. Cosa c’è da ridere penso. Come fai a essere felice se solo mezz’ora fa piangevi per lui che ti aveva tradita. Non so darmi una risposta. Incolpo ancora una volta il tempo, che è capace di alterare le reali dimensioni delle cose. Che poi se cambiano sempre quelle reali non esistono. Sto nuovamente guardando me stesso attraverso un televisore. Dico che sono stanco e qualche altra banalità. Raccolgo nel frattempo i miei vestiti. Me li infilo uno dopo l’altro lentamente, lei guarda fuori dalla finestra. Poche luci attraversano ogni tanto il buio. A quell’ora in quella piccola via c’è poco traffico. Lei non dice nulla e io neanche. Prima di andarmene le chiedo a cosa sta pensando. Mi risponde che non sa se questa sera sia stata un inizio o una fine. Le dico che neanche io lo so. Che farebbe bene a riposare e domani ci penseremo. Mi torna in mente la storia del dopo che da senso alle cose: non trovo la voglia di spiegargliela. Esco. L’aria si è fatta fredda. Tiro su il colletto del cappotto. I pochi passi che mi separano da casa mia sembrano non finire più. Cerco nella mia mente vecchi ricordi di Ilaria. Quasi non ne trovo. Il tempo ora è sempre più lento. Arrivo in casa. Sono stanco. Mi spoglio lentamente e mi ritrovo nel letto. Sento il sonno che mi avvolge. Lo lascio fare. Per i pensieri ci sarà tempo domani. Prima di dormire mi si presenta un ultima immagine. Il grosso orologio di prima ora è avvolto in una nuvola, come la cima di quelle montagne che si vedono nei libri di fiabe. Sotto il grosso perno c’è una bocca e a questa arriva una strada. Ho voglia di camminare e la bocca sorride.
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