Marco era li, quella sera, su quel vagone a guardare il mondo dal finestrino di un treno. Aveva le illusioni che possono rimanere a quarant’anni e la saggezza che gli è venuta da una gioventù troppo breve. Troppo breve davvero, non ricordava neanche più quando fosse diventato adulto, tanto era passato del tempo. La ragazza che stava seduta davanti a lui lo stava fissando da ore; attirata senza una ragione apparente da quello sguardo penetrante e quei capelli scarmigliati, che facevano del suo volto una maschera affascinante ma senza espressione. La mente del ragazzo stava ripercorrendo a ritroso la propria vita: non era stata così lunga, ma intensa ma quello si.
Gli occhi erano assenti ma lo sguardo dell’anima stava vagando nella campagna calabra. Vedeva sua madre, quella donna povera ma bella, quelle guance e quel petto floridi da donna mediterranea. Per un attimo lo sfiorò un pensiero: di una donna così avrebbe potuto innamorarsene. Lo rimosse subito; colto da quel senso di moralità che è proprio di ogni essere umano, anche di quanti dicano di averlo perduto. Sua madre gli aveva sempre voluto bene, tanto da compensare la distanza del padre, quell’inverno che si era trasferito al Nord. Spinto dal bisogno di uno stipendio per mantenere una moglie e un figlio piccolo, stipendio che da quei campi frustati del sole proprio non si riusciva a cavarlo. Ma nei quali, con la testardaggine tipica di quel popolo millenario sopravvissuto nei secoli ai padroni stranieri, era rimasta solo quella donna, a lavorare quella terra dura, misto di sassi e sabbia.
Rivedeva ancora quel natale del 1962, quando il papà tornò a casa per la prima volta da Milano con la seicento e portò dolci e regali e poi, proprio nella notte in cui nasce Nostro Signore, annunciò trionfante che quando sarebbe ripartito non l’avrebbe fatto solo, perché una bella casa moderna li aspettava tutti a Milano. Marco si rivedeva e ritrovava con lo stesso stupore del bambino di quattro anni che era allora. Ricorda il viaggio, lunghissimo, e poi quello scatolone enorme di cemento che sarebbe stata per quindici anni la sua casa.
“Mi scusi, può aprire per cortesia il finestrino?” Marco impiegò un attimo, poi si accorse che a parlare era stata la ragazza che aveva seduta di fronte. “Subito”, senza alzare gli occhi si alzo, apri il finestrino e fu colto in pieno volto dall’aria pungente del mattino.
Proprio come quell’aria che sembrava voler entrare nelle sue ossa del sud quando, scolaro delle elementari e delle medie, di buon mattino usciva dal quel palazzone milanese, che si era accorto essere non poi così diverso da tanti altri e nemmeno così brutto in fondo. Ripensava a come era bella l’illusione dell’infanzia che quello che siamo e abbiamo, sia l’unica dimensione possibile; la voglia di diventare grandi mentre lo si diventa già troppo in fretta, le corse con gli amici, i sorrisi della mamma e i profumi dei luoghi in cui si vive, la faccia del babbo che torna ogni sera e si compiace di avere un figlio cittadino. Poi la scelta delle scuole superiori, che costavano tanto ma, come dicevano i professori con un figlio così bravo è un peccato farne un operaio. E allora il liceo classico: era lontano dal quartiere, un po’ come tutto ciò che non erano dormitori. L’incontro con i nuovi compagni, le sue presunte e reali inferiorità davanti a quelle espressioni della migliore classe medio alta della Milano anni Settanta. E poi i suoi vestiti, che quando erano nuovi eran troppo lunghi, comperati per la crescenza come diceva la mamma, altrimenti eran già troppo corti. I professori del ginnasio, per i quali il sessantotto era stata una bestemmia da ricoprir d’acqua santa. Poi le cose migliorarono, era bravo a scuola e lo era in modo simpatico, senza spocchia, così i compagni cominciarono a stimarlo, quanto meno perché le versioni di greco le passava. L’illusione che il mondo conosciuto fosse solo quello piccolo intorno a lui cadeva giorno dopo giorno, come un muro sotto i colpi di una mazza, a blocchi grandi, che fanno male dentro ma spingono alla sfida. Cominciò a guardarsi intorno, a dire il vero più che altro guardava i fianchi di Valentina, finché un giorno, mentre stavano insieme a studiare a casa di lei, se li ritrovo troppo vicini ai suoi.
La mattina seguente nessuno dei due era preparato in greco, ma entrambi di certo, eran più preparati alla vita. A Marco pareva ieri che era entrato per la prima volta a casa di Vale, figlia di un industriale miliardario: ragazza incazzata con il mondo, con l’illusione di cambiarlo.
Ora ripensa a quante volte rincasava la sera tardi, con l’ultimo tram o a piedi perché a quell’ora tram non ne passavano più, e i genitori stanchi per il lavoro già dormivano; e ripartiva la mattina presto, ma già tardi per incontrare il padre. Erano gli anni in cui la politica si doveva ancora scrivere con la P maiuscola, ma se te la dimenticavi era meno grave di dieci anni prima. I cortei nelle piazze si facevano ancora, ma finivano sempre male. Erano rimasti in pochi a combattere la battaglia, non importa per che cosa o da che parte, e per questo lo facevano con l’aiuto delle armi. Oltre alla solita Vale, aveva degli amici, intelligenti come lui per i quali patria e storia erano cose serie. Si trovavano a discutere insieme con un giovane professore, che gli forniva spunti di approfondimento e libri. Si partiva dalla convinzione che quello che tanti credono giusto, spesso è sbagliato. Si arrivava o si passava per pensatori e pensieri pericolosi, per cattivi maestri e sogni azzardati.
Cullato dal rumore ritmico delle rotaie, rivede ora quelle sere in cui si discuteva, ci si arrabbiava, si insultava la miopia di quelli che si facevano chiamare compagni, si soffriva per la Patria venduta al capitale, per di più straniero, si sognava un ordine nuovo per le cose. E poi si ritornava a casa.
Ma anche il liceo finì, Marco ebbe il suo sessanta, i pianti di gioia dei suoi genitori con i quali intanto si era trasferito in una casa più bella, frutto della liquidazione del babbo andato in pensione.
“Signore, biglietto per cortesia”, disse il controllore che era giunto al sedile di Marco. Il ragazzo trasalì, alzo gli occhi in modo improvviso. “Tutto bene, signore” chiese il controllore. “Si, si, solo ero immerso nei miei pensieri; ecco il biglietto”. “Grazie, buon viaggio”. “A lei.”.
Senza accorgersene, mentre era oramai quasi giunto a destinazione, Marco si ritrovò con la mente nella sua piccola camera di Bologna, quella che aveva affittato e divideva con altri studenti. Infatti, nell’autunno del 1978 si era trasferito là per studiare storia all’università. Vale si era iscritta a Economia e Commercio, obbligata dal padre, e nonostante le promesse d’amore eterno si erano un po’ allontanati. Così come si erano incamminati su altre strade gli altri amici del liceo, dove era anche rimasto, ormai titolare di cattedra, il professore. Nella città emiliana, un po’ come nel resto del paese, in quegli anni le persone con il genere di idee di Marco non avevano difficoltà a riconoscersi nell’ambiente universitario.
I tempi e i luoghi però erano diversi, e anche le persone cambiano. In quel marasma fecondo di idee e intuizioni, tra tutte prevalse quella che pareva la più ardita.
Marco ora si rivede in quella via buia, vestito di nero e con una sciarpa dello stesso colore pronta a essere tirata sugli occhi. Le mani e la fronte sudata di chi sa che ciò che sta per succedere cambierà la vita di molte persone, e si illude la cambierà in meglio. La pistola carica e fredda tra le mani. Poi un segnale da un’altra ombra nera appoggiata con indifferenza vicina a un portone. Un uomo che esce con una valigia in mano e un impermeabile sul braccio. Marco risente la propria mano che si alza, l’occhio che segue la canna, poi un colpo. Al cuore. Di entrambi.
Il treno è arrivato in stazione. Marco ancora sconvolto da quello che sa fin troppo bene non essere un incubo. Ha la fronte sudata e i capelli bagnati vicino alle orecchie. Si alza, afferra la sua borsa si dirige alla porta del vagone. Scende e un brivido percorre il suo corpo mentre si avvia sulla banchina della stazione. Non è il freddo.
Dopo quasi vent’anni da quella sera, ritorna in Italia dalla Francia, e lo fa per il funerale della madre. Ma non potrà neanche presentarvisi come il figlio;dovrà accontentarsi di vederlo da lontano, sperando che nessuno lo riconosca. Nel frattempo infatti ha cambiato nome, data di nascita, è un’altra persona o forse è solo più un fuggitivo come tanti. Per lo stesso motivo al funerale del padre non poté nemmeno venire. La sua vera vita è finita a vent’anni, in quel vicolo e in compagnia di quella dama dall’occhio nero che il colpo più forte l’ha sparato al suo cuore.
Marco non è mai esistito che nella mente e nella fantasia di una giovane studentessa italiana , seduta in un vagone che la deve riportare a casa da Parigi e affascinata da uno sconosciuto e casuale compagno di viaggio che le siede davanti.
Marco è esistito come protagonista, però, della storia di questo nostro Paese: con tanti nomi e tanti volti, tante bandiere. La memoria non è una forma di assoluzione.
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