giovedì 15 maggio 2008

TEMPO

18.12, l’ora di quella sera guardata di sfuggita sullo schermetto azzurro del cellulare, illuminato per un attimo dal rapido gesto di un dito su una tastiera conosciuta a memoria. L’ora della mia nascita, pensai subito. Chissà quante altre sere l’ho letta tornando a casa da qualche posto sul quadrante dell’orologio e mai ci ho badato. Una strana sensazione mi avvolge come a sottolineare che il tempo è qualcosa che ci appartiene, uno strano modo per tenere il conto di noi stessi e delle nostre azioni. Strumento che in realtà si fa sostanza ogni volta che lo sentiamo stringerci al collo; quando arriviamo tardi ad un grande appuntamento, oppure troppo presto. Il senso delle cose è dato quasi sempre dal prima e dal dopo. Senza di questi il fatto non avrebbe importanza. Nessun fatto. Lo sa bene l’animale selvatico, la preda per lui non è che la conseguenza dell’arte della caccia che gli viene dal suo passato, e il cibarsi della preda conquistata non sempre è scontato. Sono quasi arrivato sotto casa, penso alle mie gambe che camminano senza fretta e senza che io le percepisca, pensate a quanto tempo un uomo passerebbe a pensare a camminare se le sue gambe non si sapessero muovere da sole. Inconsciamente si dice, schemi motori. Per un attimo però, quasi come una persona che viaggiando in un corridoio con tante porte si distragga un attimo e apra quella sbagliata, le mie gambe si portano alla mia coscienza. Sembrano esprimermi la voglia di camminare ancora, di non ritornare a scaricare la gravità del mio corpo su una sedia, di non perdersi tra le molli pieghe dei nuovi cuscini arancione di cui da qualche giorno ho dotato la vecchia impagliatura sfilacciata delle seggiole della mia cucina. Per un secondo, dicevo, sembrano ricordarsi di discendere da quelle forti gambe muscolose che dovevano avere i nostri antenati che ogni giorno le allenavano con la fatica.
Decido di dare loro ascolto. Passo oltre la porta di casa, rimetto in tasca le chiavi che avevo tirato fuori con un gesto meccanico qualche passo prima. Senza pensare cammino, alzo gli occhi quanto basta per vedere un bambino affacciato ad un balcone. Quasi mi spavento, sembra così piccolo che quasi si direbbe poter passare tra le sbarre. Provo a interrogare la mia mente sui ricordi del mio passato. Quanto è rimasto di me a tre anni all’interno della mia mente? Qualcuno dice che niente va perduto perché tutto concorre a farci essere come siamo adesso. Questa sera mi permetto di dissentire: chissà quante cose che importanti, che mi hanno fatto ridere e piangere, cose che mi hanno fatto magari disperare o battere forte il cuore come solo quello di un bambino sa fare, ho dimenticato? Non lo so, però mi coglie un profondo senso di tristezza. Per la seconda volta in pochi minuti mi ritorna in mente il tempo. Questa volta ha cambiato faccia: è un grosso orologio, massiccio e rigido per nulla simile a quelli di Dalì. E in mezzo, il grosso perno pesante quello che tiene ferme le lancette. E’ un istante e provo a immaginare cose succederebbe se per un attimo quel grosso punto fisso si sciogliesse e le lancette fossero libere di muoversi in ogni direzione. Tutto sarebbe un gran caos. Non solo il dopo prederebbe senso rispetto al prima. Ma non si saprebbe più niente. E’ quasi impossibile da immaginare. Credo che sia per questo che gli orologi hanno un perno e soprattutto le lancette la punta. Per evitare che una si giri a guardare il centro. Come gli occhi in un uomo: non sono fatti per guardarsi all’interno. Mi rendo conto per un attimo che sto veramente vaneggiando, però sono stanco ma ancora non ho voglia di tornare a casa:decido di allungare ancora un po’ la strada con l’intenzione di guardare qualche vetrina. Sento tirare la tracolla della borsa e il suono di un saluto sembra riportarmi sulla terra. Rispondo voltandomi indietro per vedere di chi si tratta. La voce non mi era familiare. Il volto invece si, Ilaria una ragazza che studiava nel mio stesso liceo. Avevo saputo qualche tempo prima da un amico che si era trasferita nel mio stesso quartiere. Mi era anche sembrato di vederla passare una sera mentre ero affacciato alla finestra. E’ davvero tanto che non la vedo, mi ricordo che per un certo periodo ci eravamo anche visti spesso a causa di comuni amici. Mi accorgo solo dopo qualche minuto di conversazione che ci troviamo davanti a un bar: mi sembra gentile offrirle un caffè. Entriamo nel bar, ordino al barista e ci sediamo a un tavolino vicino alla vetrina, uno davanti all’altro. Per dieci minuti ci raccontiamo cosa ci è successo negli ultimi mesi in cui non ci siamo visti. Ci diciamo le solite cose scontate su come sia facile perdersi di vista e ci promettiamo che ci saremmo rivisti presto. Ad un certo punto mentre lei continua a parlarmi della sua tesi appena iniziata mi sorprendo distratto. Come se da fuori mi vedessi dentro una scena di un film. Sento le sue parole, vedo la sua bocca muoversi ma in realtà nulla mi colpisce. Tutto rimbalza. Ancora una volta penso al tempo. A come a volte dovremmo chiamarlo al plurale: tempi. A ognuno di noi credo sia successo nella vita di sentirsi come diviso, con una parte del suo corpo in un luogo e una parte in un'altro. Perché alla fine tempo e luogo sono un po’ sinonimi, o almeno l’uno esiste in virtù dell’altro. E viceversa. Un luogo vive come tale perché c’è un tempo che lo caratterizza. Un palazzo è tale quando ad un certo punto della linea del tempo cessa di essere mattoni, cemento, vetro, mobili e smette di esserlo quando ritorna a essere tutte quelle cose. Unione e separazione, questo fa il tempo. Ritorno a intendere le sue parole. Come per magia non sono più un suono ma hanno ripreso significato. Ora mi sta parlando del suo ex fidanzato. L’ha lasciato lei l’altro giorno. Ride. Ma mentre ride due grosse lacrime le scendono sul volto. Mi interesso al suo racconto. Con un gesto inconscio ( quanto è diverso dal camminare) prendo la sua mano nella mia. E’ fredda e bagnata. Mi dice che l’ha lasciato perché l’ha beccato con un'altra. Cerco di farla ridere con qualche battuta idiota. Ci riesco o almeno così mi sembra. Si è fatto tardi. Usciamo dal bar, lei ha un brivido. Le porgo il mio cappotto che tenevo sul braccio. Penso che fa caldo e che finalmente ci stiamo avviando verso la primavera. Glielo dico, lei annuisce. In effetti era una frase banale. Si poteva fare di meglio. Camminiamo appena pochi passi: ora le mie gambe sono tornate incoscienti. Ci fermiamo senza accorgercene davanti a un portone. E’ quello di casa sua. Continuiamo a parlare. I mesi passati dal nostro ultimo incontro sembrano essere spariti. Di nuovo, sempre loro: il tempo, la coscienza, la memoria. Questa volta però mi passano per la testa rapidamente. Non mi ci soffermo. Continuo a parlare, sempre più libero. Come se avessi davanti qualcuno che mi conosce bene. Cominciamo a scherzare. E comincia a fare freddo. Un brivido sottile mi scuote. Lei se ne accorge, mi chiede se rivoglio il cappotto. Rifiuto, poi sarebbe lei ad aver freddo dico. Il tempo che prima sembrava volermi tener lontano da lei, ora rallenta. Ogni parola, ogni gesto minimo dei nostri due corpi sembra essere percepito profondamente. Come allungando i tempi della vita al rallentatore. Lei abbassa gli occhi nella borsa e cerca le chiavi. Con un sorriso leggero si scusa per avermi fatto perdere tempo. Guardo di nuovo il cellulare, questa volta con un gesto più ampio, misurato. Sono le 19.40. Non ho impegni quella sera dico. Mentre già è oltre la soglia mi chiede se voglio salire. Rispondo quando già ho un piede sullo scalino. La mano mi scivola lenta sulla sua schiena, con un gesto di protezione. Me ne accorgo solo dopo averlo fatto. Ora sento che il tempo accelera. Lei si appoggia alla mia mano, tanto che non oso ritrarla. Due piani di scale fatti così uno appoggiato all’altro. Mentre apre la porta mi ritraggo un attimo, per un attimo mi chiedo perché mi trovo in quel posto. Lei mi guarda. Sento di nuovo il tempo che accelera. Mi avvicino a lei, trovo le sue labbra. Intanto le sue mani si sono strette dietro di me. Dietro le mie spalle la porta si chiude, con un rumore che mi sembra lontano. Nella mente più nulla, cadiamo sul divano. Ora anche i miei battiti accelerano, a fondo. Il nostro cuore sa fare quello che gli occhi non sanno fare. Calore e sogno, a occhi chiusi. Due corpi l’uno sull’altro. Due orologi che per un attimo hanno l’illusione di scambiarsi le lancette. Senza più i perni. La mente svuotata dai tanti pensieri di qualche minuto prima. Voglia di non si sa bene cosa. Mentre facciamo l’amore, è un attimo, ma lo sento. Il tempo è arrivato alla sua massima velocità. Immagine di molle che saltano e ingranaggi che si spezzano in macchine troppo complicate. Poi la quiete. Lentamente il cuore ritorna a battere con calma, mentre stiamo abbracciati. Gli occhi mi cadono sul pavimento, mentre li stacco per un attimo dal suo corpo che respira forte. I vestiti per terra, prova che le cose esistono in virtù del prima e del dopo. Soprattutto del dopo. Il tempo inizia anche lui a rallentare, ogni tanto ancora si riprende e accelera. Senza la forza di prima. Qualche bacio e qualche carezza. Un pensiero si fa largo nella mia testa. Inizio a chiedermi cosa significhi quello che è stato. Sento ancora il tempo rallentare. Con lui se ne vanno le mie forze. Mi sento stanco. Lei mi guarda e sorride, mi sembra quasi sciocca. Cosa c’è da ridere penso. Come fai a essere felice se solo mezz’ora fa piangevi per lui che ti aveva tradita. Non so darmi una risposta. Incolpo ancora una volta il tempo, che è capace di alterare le reali dimensioni delle cose. Che poi se cambiano sempre quelle reali non esistono. Sto nuovamente guardando me stesso attraverso un televisore. Dico che sono stanco e qualche altra banalità. Raccolgo nel frattempo i miei vestiti. Me li infilo uno dopo l’altro lentamente, lei guarda fuori dalla finestra. Poche luci attraversano ogni tanto il buio. A quell’ora in quella piccola via c’è poco traffico. Lei non dice nulla e io neanche. Prima di andarmene le chiedo a cosa sta pensando. Mi risponde che non sa se questa sera sia stata un inizio o una fine. Le dico che neanche io lo so. Che farebbe bene a riposare e domani ci penseremo. Mi torna in mente la storia del dopo che da senso alle cose: non trovo la voglia di spiegargliela. Esco. L’aria si è fatta fredda. Tiro su il colletto del cappotto. I pochi passi che mi separano da casa mia sembrano non finire più. Cerco nella mia mente vecchi ricordi di Ilaria. Quasi non ne trovo. Il tempo ora è sempre più lento. Arrivo in casa. Sono stanco. Mi spoglio lentamente e mi ritrovo nel letto. Sento il sonno che mi avvolge. Lo lascio fare. Per i pensieri ci sarà tempo domani. Prima di dormire mi si presenta un ultima immagine. Il grosso orologio di prima ora è avvolto in una nuvola, come la cima di quelle montagne che si vedono nei libri di fiabe. Sotto il grosso perno c’è una bocca e a questa arriva una strada. Ho voglia di camminare e la bocca sorride.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

a mio parere al racconto manca il tocco di classe:la protagonista che finge di rovistare nella borsa alla ricerca delle chiavi e poi ci giocherella nervosamente...

Anonimo ha detto...

il tempo di morire

Anonimo ha detto...

...comportamento encomiabile...

quel poco da sapere sul blogger...