sabato 12 luglio 2008

La lettera

Sei e mezza, l’ora stampata sulle lancette dell’orologio del campanile. L’enorme mole del duomo si proiettava sulla piazza colpita dal sole vespertino, mentre nelle vie tutto intorno, tante persone, strette in cappotti e pellicce, si dirigevano verso casa. La dottoressa Martina Wegener si è appena alzata dalla scrivania posta proprio davanti alla finestra. Da più di quarant’anni quelle due camere, dai soffitti affrescati e dalle porte di legno ottocentesco, affacciate su piazza del duomo di Trento, sono la sua casa. Uno sguardo fuori, ai monti imbiancati che contornano la città. D’un tratto si sentì stanca. Ormai i suoi ottant’anni si fanno sentire. Pensò per un attimo a quante volte avesse lavorato per giorni interi, senza concedersi un po’ d’aria, vicino a quello stesso austero tavolo di legno. Notti insonni alla ricerca di una frase, di una parola o anche solo di un segno di punteggiatura che potesse rendere più gradevole una pagina del suo ultimo romanzo. E’ oggi una scrittrice famosa e una docente universitaria amata da generazioni di studenti di lettere antiche. La sua testa bianca per lo chignon che ne costituisce il punto più alto, unita alle candide camicie ricamate che indossa quasi sempre, dona alla sua figura un non so che di austero e familiare al contempo.
Con gli stessi gesti di sempre, si avviò a chiudere le persiane, spense la lampada Tiffany, dono di un caro amico, che da anni illumina il gesto della sua mano sul foglio bianco e aprì la porta. Già aveva chiuso il vecchio uscio cigolante quando vide una lettera nella cassetta della posta. In quel momento si ricordò di aver lasciato gli occhiali sul tavolo. Senza quell’aiuto non avrebbe potuto leggerla. Rientrò quindi nello studio; solo poca luce entrava attraverso le feritoie delle persiane chiuse. Prese gli occhiali dal tavolo e sprofondò nella poltrona di pelle che stava nell’angolo della camera. Aprì la busta che non riportava alcun mittente e ne scrutò il contenuto. Era un foglio di carta azzurra e leggera, scritto fitto fitto con una grafia da ragazzo. Una lunga lettera d’amore. Di quelle che si scrivono quando si hanno sedici anni, lo sguardo dell’uomo grande e le risorse del bambino. Era chiaro che non fosse per lei. Probabilmente il postino aveva confuso le cassette. Da qualche tempo incontrava spesso una ragazzetta bionda. Doveva essere la figlia della sig.ra Stanmdam. Una donna gentile ed elegante, un avvocato qualcuno le aveva detto, che da poche settimane si era trasferita nell’appartamento vicino al suo studio. Sicuramente era la giovane la destinataria e l’ispiratrice della lettera.
Se da un lato avrebbe voluto chiudere il foglio, così per un senso di naturale discrezione verso un sentimento tanto puro, dall’altro fu presa da una sorta di forza che la spinse ad arrivare in fondo. In un attimo arrivò all’ultima riga, e poi alla firma. Diceva solo Tuo Stephan.
In quel momento la linea del tempo, che si dispiega lunga, raccogliendo ogni secondo della vita di ogni uomo, si riavvolse. La mente di Martina era già ben al di là della porta del suo studio. Era alla sua camera di ragazza. Nella casa dei suoi genitori, là su in quel paesino sulla montagna. Era tutto come allora: i mobili di larice costruiti da suo nonno nelle giornate d’inverno, quando non si poteva andare nei boschi. Semplici e lisci come gli aghi dell’albero da cui sono stati ricavati. E poi il balcone che guarda verso la campagna. Risentì di nuovo dopo tanti anni lo scampanare delle capre che tornano, come ogni sera nella stalla. Lei è sul letto. Tra le mani un fazzoletto pieno di lacrime. Sta leggendo una lettera. Forse quella di allora non era di carta azzurra, ma in quel momento la ricordò così. Anzi l’ha già letta e riletta più volte. Iniziava come tante altre che Stephan le aveva scritto. Piena di complimenti dolci e di promesse di amore. Con quel ragazzo con i capelli rossi sempre spettinati erano cresciuti insieme. A separare i masi, le cascine tradizionali trentine, delle loro due famiglie, solo poche spanne di terra. La prima volta che si erano guardati negli occhi, forse, nessuno dei due aveva già imparato a camminare. Poi gli anni erano passati, loro sempre insieme. A correre e a giocare tra sassi e alberi. Oppure andare a scuola con la slitta, come si faceva in inverno quando la neve era caduta abbondante sulla valle. Insieme,ancora, la sera prima di quella lettera, sotto il portico della casa di Martina a immaginare come avrebbero fatto a stare lontani l’’uno dall’altro. Lei infatti due giorni più tardi sarebbe partita per andare a vivere a Trento, dalla zia Geltrude, per continuare a studiare. E là sarebbe tornata solo l’estate successiva, per le vacanze. Come le signorine di Bolzano, le villeggianti con l’ombrellino e i vestiti bianchi, aveva detto lui per indispettirla. Avevano però rimandato i saluti alla sera successiva. Invece al posto di Stephan, la sera dopo, era arrivata solo la sua lettera. Diceva che non sarebbe venuto a salutarla. Perché era troppo triste, e anche troppo arrabbiato con lei che se ne andava. Lei che, senza preoccuparsi troppo, distruggeva il loro futuro. In quei giorni c’era in un paese vicino una fiera, Stephan aveva deciso di andarci per aiutare lo zio a portare la mercanzia e ci sarebbe rimasto per tre giorni.
Martina parti la mattina dopo. Alle otto in punto con la corriera. E ancora piangeva mentre salutava i suoi genitori. La prima cosa che fece arrivata a Bolzano fu di scrivere al suo ragazzo dai capelli rossi. Una risposta a quella sua ultima missiva,però, non la ebbe mai. Qualcuno tra i parenti mesi dopo, venendo a farle visita in città, le disse che Stephan era dovuto partire per il servizio militare, forse prima ancora di aver ricevuto la sua lettera. La guerra era nell’aria da tempo, e scoppiò come un temporale proprio in quei giorni. Di quel ragazzo coi capelli rossi non si ricorda più nulla in paese, se non che è uno dei tanti fantasmi di un inutile massacro.
Finalmente il tempo si riprese quello che gli apparteneva e la dottoressa Wegener riuscì finalmente chiudere la lettera. Le sue guance erano ormai cariche di lacrime e le rughe sottili, che scavavano quel viso magro, erano piccoli rivoli d’acqua. Solo dopo qualche minuto riuscì ad alzarsi. La prima cosa che le venne in mente fu di guardare la busta, lasciata sulla scrivania. Chi era il destinatario della lettera? La sollevò con la mano leggermente tremolante. Era una busta senza francobollo. Probabilmente di qualcuno che invece che spedirla aveva preferito portarla a mano. Nella stessa scrittura incerta della pagina che aveva appena letto c’era scritto solo un nome: Martina.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Il tempo è strano, impercettibile, assolutamente irriconoscibile, ma terribilmente presente. Lo vedi ovunque e a volte un po' lo senti, ma non ci pensi, corri in fretta e poi ad un tratto eccolo lì...sugli altri e su di te. E ci sono quei giorni i cui, senza volerlo, sfiorando con lo sguardo la tua immagine riflessa in uno specchio...non ti riconosci. E allora torni indietro, intontita, meravigliata, forse anche un po' spaventata e finalmente ti guardi. Non è solo un osservare qualcosa che chiunque passando distratto noterebbe, ma è un riconoscersi. Vedere, vederti, senza maschera, pregiudizi o fretta. Sei tu, ciò che chi ti vuole bene immagina quando pensa a te. Che strano,ma in fondo sono veramente io quell'immagine? Sì...
Il tempo, il nostro infinito limite...
Il tempo...incapace però di far mutare i nostri sentimenti...forse in grado di allontanarli da noi, ma lasciandoli pur sempre, come Martina ci insegna, presenti e foti là dove neanche il tempo non scorre via.

Storia toccante ed emozionante...grazie Fra...

Anonimo ha detto...

Il tempo è strano, impercettibile, assolutamente irriconoscibile, ma terribilmente presente. Lo vedi ovunque e a volte un po' lo senti, ma non ci pensi, corri in fretta e poi ad un tratto eccolo lì...sugli altri e su di te. E ci sono quei giorni i cui, senza volerlo, sfiorando con lo sguardo la tua immagine riflessa in uno specchio...non ti riconosci. E allora torni indietro, intontita, meravigliata, forse anche un po' spaventata e finalmente ti guardi. Non è solo un osservare qualcosa che chiunque passando distratto noterebbe, ma è un riconoscersi. Vedere, vederti, senza maschera, pregiudizi o fretta. Sei tu, ciò che chi ti vuole bene immagina quando pensa a te. Che strano,ma in fondo sono veramente io quell'immagine? Sì...
Il tempo, il nostro infinito limite...
Il tempo...incapace però di far mutare i nostri sentimenti...forse in grado di allontanarli da noi, ma lasciandoli pur sempre, come Martina ci insegna, presenti e foti là dove neanche il tempo scorre via.

Storia toccante ed emozionante...grazie Fra...

theuncle ha detto...

grazie per il tuo commento....aveva qualcosa di profondo...che mi ha colpito....ritorna a troivarmi e a leggermi se ti va...ciao chiunque tu sia...

Anonimo ha detto...

ma non sai parlare di te senza nasconderti dietro bei racconti?

theuncle ha detto...

non hai proprio capito nulla...io scrivo qualsiasi storia senza essere mai il protagonista...scrivo fantasie non realtà...

quel poco da sapere sul blogger...