martedì 5 agosto 2008

multisensorialità

Fugace parola nata nell’angolo di un occhio
Astratto concetto figlio di un’idea concreta
Mentali percorsi più lunghi di me
Astrazioni fatte di parole, parole fatte di idee, idee fatte da suoni
l’uomo, la donna, il bene e il male, il semaforo.
Gia verde e rosso,
il giallo ininfluente passaggio forma di un dinamismo falso.

Innamoramento

Come un continuo, profondo denso sentire
Come un istante sparato nell’assoluto
Come un cane che ulula ad un ombra intravista in una sera buia
Come un impressione mai confermata
Come un città spazzata dal vento
Come un uomo che guarda la sua donna
Come un amore nuovo che nasce in fondo al cuore.

V.

La sento che scivola sotto le dita come un velo di seta
Nelle gambe come la corrente di un calmo torrente
Nel viso come un caldo vento che asciuga le lacrime

A volte la sento nel sonno
A volte la sento all’improvviso
come un macigno che cade dall’alto
A volte la sento sempre è con me.
Io Vivo.

Inquietudine

Un senso lasso e profondo
sordo e malcelato in un animo inquieto
di un uomo che percepisce se stesso
nello scorrere normale del tempo moderno

Bus

Lingue straniere, suoni sincopati per accenti estranei
Una ragazza arancione e una borsa rossa
La sua, la mia la loro vita, esposte al delirio luccicante
di una città all’imbrunire.
Ma il traffico rallenta…
E’ già tardi…le loro vite anch’esse potrebbero rallentare
STOP. FERMATA.
Era solo un’illusione.

sabato 12 luglio 2008

La lettera

Sei e mezza, l’ora stampata sulle lancette dell’orologio del campanile. L’enorme mole del duomo si proiettava sulla piazza colpita dal sole vespertino, mentre nelle vie tutto intorno, tante persone, strette in cappotti e pellicce, si dirigevano verso casa. La dottoressa Martina Wegener si è appena alzata dalla scrivania posta proprio davanti alla finestra. Da più di quarant’anni quelle due camere, dai soffitti affrescati e dalle porte di legno ottocentesco, affacciate su piazza del duomo di Trento, sono la sua casa. Uno sguardo fuori, ai monti imbiancati che contornano la città. D’un tratto si sentì stanca. Ormai i suoi ottant’anni si fanno sentire. Pensò per un attimo a quante volte avesse lavorato per giorni interi, senza concedersi un po’ d’aria, vicino a quello stesso austero tavolo di legno. Notti insonni alla ricerca di una frase, di una parola o anche solo di un segno di punteggiatura che potesse rendere più gradevole una pagina del suo ultimo romanzo. E’ oggi una scrittrice famosa e una docente universitaria amata da generazioni di studenti di lettere antiche. La sua testa bianca per lo chignon che ne costituisce il punto più alto, unita alle candide camicie ricamate che indossa quasi sempre, dona alla sua figura un non so che di austero e familiare al contempo.
Con gli stessi gesti di sempre, si avviò a chiudere le persiane, spense la lampada Tiffany, dono di un caro amico, che da anni illumina il gesto della sua mano sul foglio bianco e aprì la porta. Già aveva chiuso il vecchio uscio cigolante quando vide una lettera nella cassetta della posta. In quel momento si ricordò di aver lasciato gli occhiali sul tavolo. Senza quell’aiuto non avrebbe potuto leggerla. Rientrò quindi nello studio; solo poca luce entrava attraverso le feritoie delle persiane chiuse. Prese gli occhiali dal tavolo e sprofondò nella poltrona di pelle che stava nell’angolo della camera. Aprì la busta che non riportava alcun mittente e ne scrutò il contenuto. Era un foglio di carta azzurra e leggera, scritto fitto fitto con una grafia da ragazzo. Una lunga lettera d’amore. Di quelle che si scrivono quando si hanno sedici anni, lo sguardo dell’uomo grande e le risorse del bambino. Era chiaro che non fosse per lei. Probabilmente il postino aveva confuso le cassette. Da qualche tempo incontrava spesso una ragazzetta bionda. Doveva essere la figlia della sig.ra Stanmdam. Una donna gentile ed elegante, un avvocato qualcuno le aveva detto, che da poche settimane si era trasferita nell’appartamento vicino al suo studio. Sicuramente era la giovane la destinataria e l’ispiratrice della lettera.
Se da un lato avrebbe voluto chiudere il foglio, così per un senso di naturale discrezione verso un sentimento tanto puro, dall’altro fu presa da una sorta di forza che la spinse ad arrivare in fondo. In un attimo arrivò all’ultima riga, e poi alla firma. Diceva solo Tuo Stephan.
In quel momento la linea del tempo, che si dispiega lunga, raccogliendo ogni secondo della vita di ogni uomo, si riavvolse. La mente di Martina era già ben al di là della porta del suo studio. Era alla sua camera di ragazza. Nella casa dei suoi genitori, là su in quel paesino sulla montagna. Era tutto come allora: i mobili di larice costruiti da suo nonno nelle giornate d’inverno, quando non si poteva andare nei boschi. Semplici e lisci come gli aghi dell’albero da cui sono stati ricavati. E poi il balcone che guarda verso la campagna. Risentì di nuovo dopo tanti anni lo scampanare delle capre che tornano, come ogni sera nella stalla. Lei è sul letto. Tra le mani un fazzoletto pieno di lacrime. Sta leggendo una lettera. Forse quella di allora non era di carta azzurra, ma in quel momento la ricordò così. Anzi l’ha già letta e riletta più volte. Iniziava come tante altre che Stephan le aveva scritto. Piena di complimenti dolci e di promesse di amore. Con quel ragazzo con i capelli rossi sempre spettinati erano cresciuti insieme. A separare i masi, le cascine tradizionali trentine, delle loro due famiglie, solo poche spanne di terra. La prima volta che si erano guardati negli occhi, forse, nessuno dei due aveva già imparato a camminare. Poi gli anni erano passati, loro sempre insieme. A correre e a giocare tra sassi e alberi. Oppure andare a scuola con la slitta, come si faceva in inverno quando la neve era caduta abbondante sulla valle. Insieme,ancora, la sera prima di quella lettera, sotto il portico della casa di Martina a immaginare come avrebbero fatto a stare lontani l’’uno dall’altro. Lei infatti due giorni più tardi sarebbe partita per andare a vivere a Trento, dalla zia Geltrude, per continuare a studiare. E là sarebbe tornata solo l’estate successiva, per le vacanze. Come le signorine di Bolzano, le villeggianti con l’ombrellino e i vestiti bianchi, aveva detto lui per indispettirla. Avevano però rimandato i saluti alla sera successiva. Invece al posto di Stephan, la sera dopo, era arrivata solo la sua lettera. Diceva che non sarebbe venuto a salutarla. Perché era troppo triste, e anche troppo arrabbiato con lei che se ne andava. Lei che, senza preoccuparsi troppo, distruggeva il loro futuro. In quei giorni c’era in un paese vicino una fiera, Stephan aveva deciso di andarci per aiutare lo zio a portare la mercanzia e ci sarebbe rimasto per tre giorni.
Martina parti la mattina dopo. Alle otto in punto con la corriera. E ancora piangeva mentre salutava i suoi genitori. La prima cosa che fece arrivata a Bolzano fu di scrivere al suo ragazzo dai capelli rossi. Una risposta a quella sua ultima missiva,però, non la ebbe mai. Qualcuno tra i parenti mesi dopo, venendo a farle visita in città, le disse che Stephan era dovuto partire per il servizio militare, forse prima ancora di aver ricevuto la sua lettera. La guerra era nell’aria da tempo, e scoppiò come un temporale proprio in quei giorni. Di quel ragazzo coi capelli rossi non si ricorda più nulla in paese, se non che è uno dei tanti fantasmi di un inutile massacro.
Finalmente il tempo si riprese quello che gli apparteneva e la dottoressa Wegener riuscì finalmente chiudere la lettera. Le sue guance erano ormai cariche di lacrime e le rughe sottili, che scavavano quel viso magro, erano piccoli rivoli d’acqua. Solo dopo qualche minuto riuscì ad alzarsi. La prima cosa che le venne in mente fu di guardare la busta, lasciata sulla scrivania. Chi era il destinatario della lettera? La sollevò con la mano leggermente tremolante. Era una busta senza francobollo. Probabilmente di qualcuno che invece che spedirla aveva preferito portarla a mano. Nella stessa scrittura incerta della pagina che aveva appena letto c’era scritto solo un nome: Martina.

mercoledì 25 giugno 2008

genesi 32, 23-33...anche le vittorie lasciano il segno...

]Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici figli e passò il guado dello Iabbok. [24]Li prese, fece loro passare il torrente e fece passare anche tutti i suoi averi. [25]Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. [26]Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore e l'articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. [27]Quegli disse: "Lasciami andare, perché è spuntata l'aurora". Giacobbe rispose: "Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!". [28]Gli domandò: "Come ti chiami?". Rispose: "Giacobbe". [29]Riprese: "Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!". [30]Giacobbe allora gli chiese: "Dimmi il tuo nome". Gli rispose: "Perché mi chiedi il nome?". E qui lo benedisse. [31]Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuel "Perché - disse - ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva". [32]Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppicava all'anca. [33]Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l'articolazione del femore, perché quegli aveva colpito l'articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico.

giovedì 15 maggio 2008

TEMPO

18.12, l’ora di quella sera guardata di sfuggita sullo schermetto azzurro del cellulare, illuminato per un attimo dal rapido gesto di un dito su una tastiera conosciuta a memoria. L’ora della mia nascita, pensai subito. Chissà quante altre sere l’ho letta tornando a casa da qualche posto sul quadrante dell’orologio e mai ci ho badato. Una strana sensazione mi avvolge come a sottolineare che il tempo è qualcosa che ci appartiene, uno strano modo per tenere il conto di noi stessi e delle nostre azioni. Strumento che in realtà si fa sostanza ogni volta che lo sentiamo stringerci al collo; quando arriviamo tardi ad un grande appuntamento, oppure troppo presto. Il senso delle cose è dato quasi sempre dal prima e dal dopo. Senza di questi il fatto non avrebbe importanza. Nessun fatto. Lo sa bene l’animale selvatico, la preda per lui non è che la conseguenza dell’arte della caccia che gli viene dal suo passato, e il cibarsi della preda conquistata non sempre è scontato. Sono quasi arrivato sotto casa, penso alle mie gambe che camminano senza fretta e senza che io le percepisca, pensate a quanto tempo un uomo passerebbe a pensare a camminare se le sue gambe non si sapessero muovere da sole. Inconsciamente si dice, schemi motori. Per un attimo però, quasi come una persona che viaggiando in un corridoio con tante porte si distragga un attimo e apra quella sbagliata, le mie gambe si portano alla mia coscienza. Sembrano esprimermi la voglia di camminare ancora, di non ritornare a scaricare la gravità del mio corpo su una sedia, di non perdersi tra le molli pieghe dei nuovi cuscini arancione di cui da qualche giorno ho dotato la vecchia impagliatura sfilacciata delle seggiole della mia cucina. Per un secondo, dicevo, sembrano ricordarsi di discendere da quelle forti gambe muscolose che dovevano avere i nostri antenati che ogni giorno le allenavano con la fatica.
Decido di dare loro ascolto. Passo oltre la porta di casa, rimetto in tasca le chiavi che avevo tirato fuori con un gesto meccanico qualche passo prima. Senza pensare cammino, alzo gli occhi quanto basta per vedere un bambino affacciato ad un balcone. Quasi mi spavento, sembra così piccolo che quasi si direbbe poter passare tra le sbarre. Provo a interrogare la mia mente sui ricordi del mio passato. Quanto è rimasto di me a tre anni all’interno della mia mente? Qualcuno dice che niente va perduto perché tutto concorre a farci essere come siamo adesso. Questa sera mi permetto di dissentire: chissà quante cose che importanti, che mi hanno fatto ridere e piangere, cose che mi hanno fatto magari disperare o battere forte il cuore come solo quello di un bambino sa fare, ho dimenticato? Non lo so, però mi coglie un profondo senso di tristezza. Per la seconda volta in pochi minuti mi ritorna in mente il tempo. Questa volta ha cambiato faccia: è un grosso orologio, massiccio e rigido per nulla simile a quelli di Dalì. E in mezzo, il grosso perno pesante quello che tiene ferme le lancette. E’ un istante e provo a immaginare cose succederebbe se per un attimo quel grosso punto fisso si sciogliesse e le lancette fossero libere di muoversi in ogni direzione. Tutto sarebbe un gran caos. Non solo il dopo prederebbe senso rispetto al prima. Ma non si saprebbe più niente. E’ quasi impossibile da immaginare. Credo che sia per questo che gli orologi hanno un perno e soprattutto le lancette la punta. Per evitare che una si giri a guardare il centro. Come gli occhi in un uomo: non sono fatti per guardarsi all’interno. Mi rendo conto per un attimo che sto veramente vaneggiando, però sono stanco ma ancora non ho voglia di tornare a casa:decido di allungare ancora un po’ la strada con l’intenzione di guardare qualche vetrina. Sento tirare la tracolla della borsa e il suono di un saluto sembra riportarmi sulla terra. Rispondo voltandomi indietro per vedere di chi si tratta. La voce non mi era familiare. Il volto invece si, Ilaria una ragazza che studiava nel mio stesso liceo. Avevo saputo qualche tempo prima da un amico che si era trasferita nel mio stesso quartiere. Mi era anche sembrato di vederla passare una sera mentre ero affacciato alla finestra. E’ davvero tanto che non la vedo, mi ricordo che per un certo periodo ci eravamo anche visti spesso a causa di comuni amici. Mi accorgo solo dopo qualche minuto di conversazione che ci troviamo davanti a un bar: mi sembra gentile offrirle un caffè. Entriamo nel bar, ordino al barista e ci sediamo a un tavolino vicino alla vetrina, uno davanti all’altro. Per dieci minuti ci raccontiamo cosa ci è successo negli ultimi mesi in cui non ci siamo visti. Ci diciamo le solite cose scontate su come sia facile perdersi di vista e ci promettiamo che ci saremmo rivisti presto. Ad un certo punto mentre lei continua a parlarmi della sua tesi appena iniziata mi sorprendo distratto. Come se da fuori mi vedessi dentro una scena di un film. Sento le sue parole, vedo la sua bocca muoversi ma in realtà nulla mi colpisce. Tutto rimbalza. Ancora una volta penso al tempo. A come a volte dovremmo chiamarlo al plurale: tempi. A ognuno di noi credo sia successo nella vita di sentirsi come diviso, con una parte del suo corpo in un luogo e una parte in un'altro. Perché alla fine tempo e luogo sono un po’ sinonimi, o almeno l’uno esiste in virtù dell’altro. E viceversa. Un luogo vive come tale perché c’è un tempo che lo caratterizza. Un palazzo è tale quando ad un certo punto della linea del tempo cessa di essere mattoni, cemento, vetro, mobili e smette di esserlo quando ritorna a essere tutte quelle cose. Unione e separazione, questo fa il tempo. Ritorno a intendere le sue parole. Come per magia non sono più un suono ma hanno ripreso significato. Ora mi sta parlando del suo ex fidanzato. L’ha lasciato lei l’altro giorno. Ride. Ma mentre ride due grosse lacrime le scendono sul volto. Mi interesso al suo racconto. Con un gesto inconscio ( quanto è diverso dal camminare) prendo la sua mano nella mia. E’ fredda e bagnata. Mi dice che l’ha lasciato perché l’ha beccato con un'altra. Cerco di farla ridere con qualche battuta idiota. Ci riesco o almeno così mi sembra. Si è fatto tardi. Usciamo dal bar, lei ha un brivido. Le porgo il mio cappotto che tenevo sul braccio. Penso che fa caldo e che finalmente ci stiamo avviando verso la primavera. Glielo dico, lei annuisce. In effetti era una frase banale. Si poteva fare di meglio. Camminiamo appena pochi passi: ora le mie gambe sono tornate incoscienti. Ci fermiamo senza accorgercene davanti a un portone. E’ quello di casa sua. Continuiamo a parlare. I mesi passati dal nostro ultimo incontro sembrano essere spariti. Di nuovo, sempre loro: il tempo, la coscienza, la memoria. Questa volta però mi passano per la testa rapidamente. Non mi ci soffermo. Continuo a parlare, sempre più libero. Come se avessi davanti qualcuno che mi conosce bene. Cominciamo a scherzare. E comincia a fare freddo. Un brivido sottile mi scuote. Lei se ne accorge, mi chiede se rivoglio il cappotto. Rifiuto, poi sarebbe lei ad aver freddo dico. Il tempo che prima sembrava volermi tener lontano da lei, ora rallenta. Ogni parola, ogni gesto minimo dei nostri due corpi sembra essere percepito profondamente. Come allungando i tempi della vita al rallentatore. Lei abbassa gli occhi nella borsa e cerca le chiavi. Con un sorriso leggero si scusa per avermi fatto perdere tempo. Guardo di nuovo il cellulare, questa volta con un gesto più ampio, misurato. Sono le 19.40. Non ho impegni quella sera dico. Mentre già è oltre la soglia mi chiede se voglio salire. Rispondo quando già ho un piede sullo scalino. La mano mi scivola lenta sulla sua schiena, con un gesto di protezione. Me ne accorgo solo dopo averlo fatto. Ora sento che il tempo accelera. Lei si appoggia alla mia mano, tanto che non oso ritrarla. Due piani di scale fatti così uno appoggiato all’altro. Mentre apre la porta mi ritraggo un attimo, per un attimo mi chiedo perché mi trovo in quel posto. Lei mi guarda. Sento di nuovo il tempo che accelera. Mi avvicino a lei, trovo le sue labbra. Intanto le sue mani si sono strette dietro di me. Dietro le mie spalle la porta si chiude, con un rumore che mi sembra lontano. Nella mente più nulla, cadiamo sul divano. Ora anche i miei battiti accelerano, a fondo. Il nostro cuore sa fare quello che gli occhi non sanno fare. Calore e sogno, a occhi chiusi. Due corpi l’uno sull’altro. Due orologi che per un attimo hanno l’illusione di scambiarsi le lancette. Senza più i perni. La mente svuotata dai tanti pensieri di qualche minuto prima. Voglia di non si sa bene cosa. Mentre facciamo l’amore, è un attimo, ma lo sento. Il tempo è arrivato alla sua massima velocità. Immagine di molle che saltano e ingranaggi che si spezzano in macchine troppo complicate. Poi la quiete. Lentamente il cuore ritorna a battere con calma, mentre stiamo abbracciati. Gli occhi mi cadono sul pavimento, mentre li stacco per un attimo dal suo corpo che respira forte. I vestiti per terra, prova che le cose esistono in virtù del prima e del dopo. Soprattutto del dopo. Il tempo inizia anche lui a rallentare, ogni tanto ancora si riprende e accelera. Senza la forza di prima. Qualche bacio e qualche carezza. Un pensiero si fa largo nella mia testa. Inizio a chiedermi cosa significhi quello che è stato. Sento ancora il tempo rallentare. Con lui se ne vanno le mie forze. Mi sento stanco. Lei mi guarda e sorride, mi sembra quasi sciocca. Cosa c’è da ridere penso. Come fai a essere felice se solo mezz’ora fa piangevi per lui che ti aveva tradita. Non so darmi una risposta. Incolpo ancora una volta il tempo, che è capace di alterare le reali dimensioni delle cose. Che poi se cambiano sempre quelle reali non esistono. Sto nuovamente guardando me stesso attraverso un televisore. Dico che sono stanco e qualche altra banalità. Raccolgo nel frattempo i miei vestiti. Me li infilo uno dopo l’altro lentamente, lei guarda fuori dalla finestra. Poche luci attraversano ogni tanto il buio. A quell’ora in quella piccola via c’è poco traffico. Lei non dice nulla e io neanche. Prima di andarmene le chiedo a cosa sta pensando. Mi risponde che non sa se questa sera sia stata un inizio o una fine. Le dico che neanche io lo so. Che farebbe bene a riposare e domani ci penseremo. Mi torna in mente la storia del dopo che da senso alle cose: non trovo la voglia di spiegargliela. Esco. L’aria si è fatta fredda. Tiro su il colletto del cappotto. I pochi passi che mi separano da casa mia sembrano non finire più. Cerco nella mia mente vecchi ricordi di Ilaria. Quasi non ne trovo. Il tempo ora è sempre più lento. Arrivo in casa. Sono stanco. Mi spoglio lentamente e mi ritrovo nel letto. Sento il sonno che mi avvolge. Lo lascio fare. Per i pensieri ci sarà tempo domani. Prima di dormire mi si presenta un ultima immagine. Il grosso orologio di prima ora è avvolto in una nuvola, come la cima di quelle montagne che si vedono nei libri di fiabe. Sotto il grosso perno c’è una bocca e a questa arriva una strada. Ho voglia di camminare e la bocca sorride.

lunedì 25 febbraio 2008

Potenzialità

Troppe cose potrebbe fare un uomo
Troppe creature uscire da una delle sue mani
Troppi pensieri scaturire anche solo da una piccola parte del suo cervello
Troppe luci in un attimo attirare attenzione
Troppo melodie far risuonare le viscere
Troppi volti sembrar degni d’essere amati in eterno
Troppi mestieri affascinare l’apprendista
Troppi luoghi essere degni d’abitarci per sempre
Troppi mari attirare la nave tra le proprie onde
Troppi dottrine saturare il pensiero

Pochi amici può custodire un uomo
Poche case può scegliersi come dimora
Poche donne egli può amare
Pochi maestri possono insegnargli qualcosa
Poche occasioni sono date alla sua mente
Poche cose gli è concesso di fare.
Troppi rimpianti non gli è concesso scordare.

Messaggi in codice

Guardo sommessi bisbigli morire nel meriggio di un giorno
inerme.
Sogno stagnanti rantoli nelle viscere di una terra assetata.
Spirito sangue e fiele nella realtà di questo mondo.

Depressione

Sconfitta leggera che prende nel fondo
Ardore che scema nel finire di un giorno
Confine infinito tra sano e malato
Dicotomia corpo-anima che diventa problema concreto
presenza e assenza di un doppio te stesso
estranei entrambi al tuo solido essere vincente
Cadere di amori e mattoni
Nascita dalla libera acqua di strette pareti

sabato 23 febbraio 2008

Incontro

Sorriso amico in ambiente ostile
come appiglio per uscire da lungo torpore
sodalizio inconsapevole di anime inquiete.
Abbraccio di incorporei sentimenti
sperduti in un contesto variabile
in un mutevole pattern umano

Jack Burton

Quella sera le facce del bordello dove era solito andare avevano una strana espressione, lo guardavano strano, fisso negli occhi, come , a lui sembrava in quel momento, non avevano mai voluto od osato fare.
Il barista che con le sue bottiglie di whisky era stato per anni il suo confessore, era pronto a vestire per l’ennesima volta i suoi paramenti profani. “ Quando la morte ti si appiccica addosso, tu sei l’ultimo vederla” pensava da qualche giorno il professor Jack Burton, “e tutti sembrano non vedere l’ora di svolgere la loro brava funzione di spettatori al grande spettacolo che andrà in scena”. Si sedette al tavolo in fondo alla sala fumosa, proprio dove si era seduto la prima volta che era entrato al Lily Black.
Era il suo modo di dire a quegli avvoltoi, che da anni chiamava per comodità suoi amici, che quella sera non voleva essere disturbato. Come quando non era ancora per tutti il vecchio Jack, quello che ogni sera si siede al banco e intrattiene discorsi sugli argomenti più vari, prima di salire al piano superiore per una mezz’ora di amore.
Il poco tempo che gli restava da vivere voleva dedicarlo solo a se stesso, alla parte migliore però, al professor Burton non al vecchio Jack. Era pur sempre un anatomo-patologo di fama internazionale.
Era una decisione che aveva preso d’istinto, nel momento esatto in cui il suo assistente gli aveva consegnato con gli occhi lucidi la cartella con le sue analisi, quelle che confermavano quel timore che per un medico della sua esperienza non ha bisogno di molte indagini per essere confermato.
Solo dopo essersi seduto si voltò indietro, poco più che uno sguardo al barista per ordinare il solito, doppio whisky senza ghiaccio.
“Ecco il grande professor Burton, come stai Jack? “ Era Norton Blain, direttore di una casa farmaceutica con la moralità di uno squalo. “Dovresti trovare il tempo di leggere quelle carte che ti ho lasciato in ospedale due settimane fa e , se non ti è troppo faticoso, apporvi la tua onorevole firma. Senza il tuo nome quella dannata ricerca non può essere pubblicata e il prodotto lanciato sul mercato. Ogni ora che passa io perdo milioni, tu mi risulta che il tuo l’hai gia avuto”. Il dottor Burton alzò lo sguardo verso Blain. Quante ore avevano trascorso insieme, giovani ricercatori entrambi; quante volte avevano bevuto un whisky quando in tante case già si stava facendo colazione. Eppure ora lo sentiva così lontano, nessuno di quegli attimi veniva a impedirgli di sentirsi infastidito. Si limitò ad abbozzare un sì con il capo e ad augurargli una buona serata.
Una giovane attrazione del locale aveva già accolto nel suo abbraccio il dottor Blain.
Il dottor Burton tornò a guardare in basso, con gli occhi tra le dita. Si ricordò ad un tratto di Margareth, come se il fresco viso si fosse specchiato per un attimo nel bicchiere.
La vide così com’era quando, giovane e fresca infermiera, prestava servizio nello stesso pronto soccorso di provincia dove il giovane Jack Burton imparava a fare il medico. Si amarono subito, in modo sincero e profondo. Ma per un brillante ricercatore di trent’anni una prestigiosa borsa di studio è forse meno sincera e profonda? Di sicuro sembra più importante.
Non l’aveva più rivista, solo, qualche volta, aveva chiesto di lei ad un vecchio compagno d’università rimasto a fare il medico in quel pronto soccorso.
“Cosa fa solo in un angolo il mio caro amico Jack? Cerca forse di non farsi vedere dal suo amico Saul?” Con Saul Barkly il dottor Burton aveva condiviso tutte le sere degli ultimi dieci anni, con rare eccezioni. Scrittore squattrinato con lampi di genialità che gli avevano permesso, qualche anno prima, di pubblicare qualcosa di decente; e di farsi poi mantenere per gli anni a venire da amici o presunti tali, abbastanza ricchi da potersi permettere un costoso animatore per i loro salotti. Moderni esempi di sensibilità per la cultura contemporanea.
Il professor Burton dimenticò così Margareth e fece cenno di sedersi all’amico,che pareva aver qualcosa di importante da raccontare. “ Vengo ora da casa di All, domani sera mi vuole assolutamente al party annuale della moglie. Sai quello in onore del padre, il vecchio senatore Charlize. A favore di non so quale ultima iniziativa benefica per l’Africa o il Sud America. Lo sai quanto odio quei party. E quanto odio la moglie di All. Ma sai anche che non posso permettermi di rovinare i miei rapporti con All e consorte”. Saul continuò ancora per una decina di minuti senza cambiare argomento, lontano dal prestare attenzione all’espressione, sempre più assente, del suo amico Jack. O forse, pensava il professor Burton, fingeva di non aver notato che qualcosa non andava. In fondo Saul non aveva mai fatto mistero del suo odio per tutto ciò che ha a che fare con la morte.
Ma anche per Saul c’era una bambina in costume nella solita camera al secondo piano, e Saul a quel genere di appuntamenti odiava essere in ritardo. Salutò Jack, si diedero appuntamento a più tardi. Al posto di Margareth, ora sul fondo del bicchiere ormai quasi vuoto ci stava Michy, compagno di giochi da bambino, il migliore amico che tutti hanno avuto da piccoli. Si erano separati mezzo secolo fa, quando, finite le scuole, MIchy aveva deciso di rimanere nel piccolo paesino dove erano nati. A fare l’allevatore di bestiame, come il padre e il nonno. Jack invece aveva lasciato l’Oregon per trasferirsi a studiare a New York. Avrebbe almeno potuto chiamarlo in tutti questi anni, di lui non sapeva più nulla da quando la signora Burton aveva smesso di scrivere lettere al figlio, per raccontargli quello che succedeva nel paese. E la madre del professor Burton era morta da almeno trent’anni.
Mentre pensava a tutto questo e a molto altro, le lunghe gambe di Molly gli si erano parate dinnanzi. Molly era da qualche mese la sua amante abituale. La preferiva, tra le tante ragazze del locale, perché era solita tenere per sé ogni opinione, ammesso che ne avesse qualcuna, che non fossero gli stupidi apprezzamenti ai quali il mestiere la obbligava. Non faceva domande e soprattutto non voleva risposte. Ma soprattutto non veniva mai a cercarti, semplicemente ti aspettava ogni sera nella solita stanza. Per questo il professor Burton fu stupito di vedersela comparire davanti. Alzò gli occhi dal bicchiere, come a chiedere che cosa volesse. Lei lo guardo fisso negli occhi, in un modo diverso da quando i loro occhi si incontravano nell’atto amoroso. “Questo posto è triste, e ci si sta bene se si è felici. Chi è triste non va in posti tristi. Chi ha paura ed è triste torna a casa e vi rimane, perché l’animale ferito dal cacciatore sa che solo nella tana sarà salvo. O quantomeno morirà in pace”. Il dottor Burton non si era accorto che Molly lo osservava da ore, da quando cioè era entrato nel locale. Sentì in quel momento tutto il peso della condizione di animale ferito, scosso da un fremito uscì dal locale. Si trovò in strada, salì in auto e prese a vagare per le strade deserte di San Diego pensando alle parole di Molly. La sua tana, qual’era? Si rispose che la sua tana era quel posto dove nulla mai lo aveva spaventato. Dove mai nel sonno oscure paure l’avevano colto. In poco più di un quarto d’ora era all’aeroporto.
Dopo poco più di tre ore un distinto signore prendeva in affitto una camera in un anonimo alberghetto di provincia, in un paesino a trenta chilometri da Salem, nell’Oregon.
Salito in camera, sedutosi sulla poltrona che stava in fondo al letto sentiva quella paura, che da anni lo prendeva, da molto prima cioè di scoprire di essere malato, che svaniva. Per la prima volta, dopo anni, si coricò senza aver preso tranquillanti, e intanto immaginava che la mandria che vedeva dalla finestra fosse quella di Michy, o di suo figlio, o di suo nipote. E che quando sarebbe stato così male da dover andare in ospedale, avrebbe trovato un’infermiera giovane e fresca come Margareth ad assisterlo.
Pochi mesi dopo, la prima pagina dei grandi quotidiani riportava la notizia della morte del professor Jack Burton, emerito della cattedra di Anatomia Patologica alla School of Medicine dell’università di San Diego e visiting professor in molte altre università.
Nella ultima pagina del suo diario: questi campi e questi pascoli sono stati la porta verso la Terra per il piccolo Jack. Il vecchio Jack tentò di ritornare piccolo, per passar attraverso la stessa porta, per raggiungere il cielo.

mercoledì 20 febbraio 2008

segnali

Il dolore di uno spasmo inconscio nato in un giorno troppo scuro
Un volto e tutto ciò che gli sta (messo) dietro
le speranze, le illusioni inventate, le attese
frutto di una mente che non vuole analizzare, vuole volare
la consapevolezza che volare fa male, come un gorgo psichedelico
che ti attrae, un cambio in gravità orizzontale.
Un bar, una musica troppo commerciale
Un risveglio o un più profondo assopimento?
Si ritorna, comunque, al quotidiano schifo.

Aborto poetico

Un’idea nata come il frutto di un amore
La stessa idea vista con gli occhi della ragione:
un aborto

lady x

Vita, morte, orrore
stupore, gioia, noia
Un treno, un volto ignoto
quante avventure avrà vissuto?
Cosa pensa, cosa gli starà tormentando i visceri nel profondo?
Sarà un’assassina o una santa vergine,
una puttana, un’impiegata o nulla di tutto questo?
Non m’importa, non mi riguarda
è solo un’ombra, come tante,
una bianca figura con gli occhiali e una valigia
che incontra il mio io in una notte d’inverno.

Lezione di medicina

Voce tintinnante in una cornice antica
carica di razionale forza
illuminata da secolo di scienza.
Certezza, eloquenza, superbia
lasciate andare libere di manifestarsi.
Epifania della fragile superficiale durezza della medicina.

Lorenzo

Un cappello che sa di Boheme
come una vita scossa e distrutta dal vento
L’uomo che porta il cappello figlio, lui stesso,
del vento che l’ha generato senza dargliene conto.
L’uomo Edipo uccide vivendo
quel vento che era suo padre
Sposa poi la madre che si fa chiamare Destino
complice invero d’averlo col vento generato
A voi che sapete che fece l’Edipo,
sia l’amor ritegno dal farlo e comprension per chi crolla
A chi non lo sa…felice forse vivrà

Ballata della vita

Vita, vita, vita, voglia di vita che amare fa male
all’imbrunire di un giorno qualunque
nell’antro di moderni ciclopi si crea oggi la vita
Vita, vita,vita figlia illegittima di un amore meccanico
nata per caso mentre un’altra ne muore
vissuta da troppi che non san che finisce
Vita, vita, vita incoerente col saper del vivente
capace di uccidere un uomo che ama
capace di sentir gli sbalzi d’umore di galassie inumane
Vita, vita, vita senza troppi problemi gettata
con troppi fantasmi spartita
bolla di fumo in un cielo pulito.

Fiume 1919

Il ronzio della macchina volante, figlia della nascente tecnica aeronautica, si stava facendo sempre più vicino. In quel prati attorno alla città di vita di aerei in quei mesi ne atterravano molti più di quanti non ne atterrassero in tutta la penisola italiana. A qualche chilometro di distanza, dal balcone della reggenza il Comandante stava mescolando la dolce arditezza del suo linguaggio alle gioiosa voce combattente del popolo della sua città, che inneggiava al suo re. In quello stesso prato un gruppo di uomini, o forse sarebbe più giusto chiamarli ragazzi erano intenti ad intrecciare piccoli fiori di cui i prati della Dalmazia in primavera sono così ricchi intorno alle canne dei loro moschetti. Vedendo la macchia gialla dell’aeroplano che si avvicinava, si levarono i piedi come ebbri e corsero verso il punto dove sarebbe atterrata. La sorpresa sarebbe stata grande, ma non per quei legionari, quando sotto la cuffia del pilota comparvero lunghi capelli neri, sotto gli occhiali due occhi verdi e intensi e stretti nel giubbotto da aviatore due seni morbidi. No c’era dubbio: era una bellezza della natura, una delle moderne ninfe che sentivano il richiamo dionisiaco della Festa.
Gli si fecero incontro tutti insieme, i loro volti furono per lei un tutt’uno, erano il manifestarsi sotto forma umana dei suoi sogni di contessa di germanica discendenza.
La comune fratellanza doveva uscire da quelle parole che erano già nella mente di tutti:eia eia alalà!
Erano le tre del pomeriggio, il sole lambiva quella costa sacra ancora alto nel cielo e dava a quella primavera appena iniziata i suoi primi calori; la giovane con passo militaresco non meno dei suoi indumenti si fece accompagnare da quella turba festante fin al palazzo della reggenza. Lasciò con un saluto sorridente quei fanciulli che se l’avessero incontrata in patria, negli obsoleti schemi che opprimevano un Europa non troppo diversa da quella medievale, avrebbero dovuto congedarsi da lei con un inchino secondo quanto conveniva al rango di lei, e si diresse verso il portone che portava agli uffici del Poeta. Salì lo scalone, si presento alla segreteria per farsi annunciare. Le tremavano le gambe, dall’euforia. Aveva in tasca la lettera di presentazione che suo zio, conte giramondo, asso dell’aviazione pluridecorato ma anche gran conoscitore di bordelli e amico fraterno di D’Annunzio, le aveva dato. E anche l’unico della famiglia a essere a conoscenza della vera destinazione della nipote che si era allontanata con vaghe scuse da casa.
La pesante porta che si apriva sullo studio si mosse, e da essa uscì un piccolo uomo in divisa con un monocolo dorato che gli sottolineava ancor più la vivacità degli occhi spettatori di mille avventura ma ancor desirosi e furenti. Il fisico seppur da quello che raccontano i commilitoni fosse temprato a qualsiasi asperità della guerra di certo mal si intonava alla cadenza e alla veste marziale ma il volto, quello si penetrò nel profondo lo spirito di Claudel. Ne rimase sedotta, presa da una morsa profonda. Si salutarono in modo fraterno, quasi compagni di sempre seppur fino ad un attimo prima perfetti sconosciuti. Lui le cinse le braccia intorno alla vita mentre la invitava a portarsi con lui verso la grande porta a vetri che si apriva sul panorama del mare istriano. Lei diede inconsciamente una connotazione paterna a quella morsa leggera sui fianchi, poi d’un attimo quel pensiero tante volte insinuato e subito aborrito lo vide concretizzarsi davanti ai suoi occhi. Sentiva la forza di eros che la muoveva verso quel vecchio sdentato che parlava con una voce che pareva provenire da un altro essere da un qualcosa di più profondo e arcano, il dio dell’amore appunto o forse quello dell’ebbrezza, Dioniso come secoli fa lo chiamarono per primi coloro che in quelle stesse terre ne intuirono la tremenda potenza. Fu un attimo, interrotto dal repentino staccarsi da lei del poeta, attratto dalle urla festanti che provenivano dal cortile interno del palazzo. Si affacciò e vide un nugolo di arditi che invocava la perlacea bellezza che era loro sfuggita. Erano i ragazzi che Claudel aveva incontrato prima e dopo averla scortata fin lì non si accontentavano di averla vista sparire. In fondo loro erano più belli e più giovani. Non avevano ancora capito quel qualcosa dell’amore che Claudel invece aveva appena imparato.
Era scossa, allo stesso tempo euforica, assente, aveva ancora parecchie cose da fare e il comandante l’aveva invitata ad un concerto nel teatro cittadino per quella sera stessa alla quale non voleva mancare. Salutò quell’erma divina e scese giù per lo scalone, quasi a tuffarsi tra le braccia dei suoi angeli. Mentre in un misto di lingue europee si scambiavano battute e facevano domande a lei che parlava sei lingue, arrivarono al suo aeroplano. L’aiutarono a tirare giù i bagagli, e, sempre non richiesta scorta, la seguirono fino alla casa sul porto di un giovane suo amico. Questo, trasferitosi a fiume all’indomani della rivoluzione era momentaneamente in germania per una qualche attività legata al suo mestiere di pittore e aveva lasciato alla vecchia amica Claudel il suo alloggio. Congedare quegli spiriti ebbri di vita non fu facile, ma alla fine riuscì a chiudersi alle spalle la porta della stanza che era poi lo studio del pittore. Entrò, liberatasi finalmente di quel corteo, e si buttò sul letto. Gli occhi aperti a fissare il soffitto, il cuore a mille per le tante cose che le erano successe in quel giorno, il pensiero alle tante che dovevano ancora venire.
La stanza era spoglia, stavano da un lato un tavolo con quattro sedie impagliate, a lato dei quali si apriva una porta che dava su una piccola cucina. Sul lato opposto un letto disfatto, due cavalletti su uno dei quali stava l’abbozzo di un ritratto e un numero indefinito di tele, dipinte e bianche appoggiate su un comodino e una poltrona. Dalla finestra, davanti alla porta d’ingresso, uno scorcio di quel magnifico paesaggio che ben conosce chi è già stato a Fiume in primavera.
Si alzò, come colta da un fervore particolare, da una necessità di movimento. Quel movimento che aveva appena rifiutato cacciando quei giovani ora era di nuovo un imperativo per il suo spirito. In certi luoghi, in certi momenti non si può fare a meno di venire presi dalla forza della Storia. Forza ignota e per questo temuta, ma alla quale gli esseri sensibili come sensibile era Claudel non possono opporsi. Uscì di nuovo dalla porta dello studio, si trovò a camminare in una di quelle calate che portano verso la marina. Le botteghe con la loro mercanzia esposta, gli odori dei frutti nei cesti, i colori chiari delle case che riflettevano la luce del sole che vi filtrava in raggi sottili. Bandiere italiane e della nuova Reggenza sventolavano appese ai balconi. Un vociare diffuso circondava la voce di un lontano oratore. Seguì inconsciamente quella voce, arrivando fino ad una piccola piazza che si apriva all’incrocio tra cinque piccole vie. Su un palco stava un uomo alto e atletico, con una lunga chioma nera che gli danzava sulla fronte sottolineando col suo movimento i passaggio più appassionati del suo discorso. Parlava italiano con un leggero accento mitteleuropeo. Claudel si fece avanti tra la gente che ascoltava. La colpì l’eterogeneità di quel pubblico: vecchi istriani con la barba lunga, ragazzi ancora imberbi vestiti da soldati, giovani e adulti delle più varie estrazioni, arditi, poeti, donne di malaffare e eleganti matrone. Capì in quel momento che erano uomini come quello il motore, la sorgente di quella forza che muove, apparentemente in contrasto con le logiche e gli intrighi diplomatici, la Storia. Avanzò ancora fino trovarsi sotto il palco, che poi erano due tavoli da osteria accostati per l’occasione. Cominciò a guardare in quegli occhi accesi che sovrastavano quelle labbra carnose che si muovevano rapidamente incorniciate da una barbetta nera e lucente. L’oratore si chiamava Leone Kocknilsky, ma lei non lo sapeva. Nobile giramondo, letterato e poeta, aveva lasciato i paesi bassi da giovane per girare l’Europa del primo dopoguerra. Era stato al fianco del poeta fin dai primi giorni della Reggenza. Frequentatore del Club Dada di berlino e dei nascondigli degli anarchici serbi, dei caffè parigini e delle esposizioni internazionali futuriste. Esteta, nudista e vegetariano, gran consumatore di oppio. Finito di parlare se ne andò di fretta, quasi a disprezzare gli applausi che gli venivano da quella piccola folla, e si infilò in una delle strade che scendevano al porto. Claudel lo perse di vista, trascinata in mezzo alla gente per qualche metro. Scese anche lei per una di quelle calle. Arrivò ad una spiaggia che si apriva tra due scogliere. Si sedette un attimo in riva al mare a guardare il tramonto. Poi, spinta dalla curiosità di seguire il sole fino all’ultimo istante della sua orbita si arrampico sulla scogliera che gliene impediva la vista. Le apparve una visione dionisiaca: un uomo dal fisico perfetto, nudo su uno scoglio a pelo d’acqua, in piedi con in mano un tridente. Novello Nettuno sembrava concentrare su di sé gli ultimi raggi del Sol.e morente. Era lo stesso uomo che prima con dionisiaca forza stava arrigando in piedi su tavolo. Si avvicinò lentamente, si spogliò rivelando tutta la sua bellezza e si getto in acqua. Il mito andava ora in scena su quella spiaggia: il Dio e la ninfa, la terra e il cielo, l’eternità e la finitudine che si uniscono generando una forza vitale.
Questo ma non solo allora era in quei giorni Fiume, la città di vita di cui gli aveva detto il suo zio giramondo: un luogo dove storia e finzione, realtà e illusione, speranze e promesse andavano in scena prendendo a prestito dalla Vita gli attori. Nulla era proibito dal momento che nulla era stabilito come necessario. O almeno così era nella mente e nel corpo di molti spiriti liberi che si diedero appuntamento in quel luogo. Tutti con un unico intento: vivere. In senso totale.
Claudel ripercorreva ora nella direzione opposta quella stessa calata che aveva percorso due ore prima e intanto meditava questi pensieri. Il sole era ormai calato e la fioca luce dei lampioni illuminava a malapena il passo; davanti ad un’osteria vide alcuni arditi che si stavano mettendo a tavola. Invitata da uno di essi a fermarsi a mangiare con loro, accettò come se si conoscessero da sempre. Si accese una sigaretta e ne offrì anche a loro. In mezzo al fumo che si levava da quei piccoli rotoli di tabacco che bruciavano colse la fratellanza dei soldati. Quella che li tiene uniti in battaglia, che fa sopportare loro il dolore e la paura e che ora, insieme gli spinge all’amore e alla festa portando fiori nei loro moschetti. Il tempo correva e non solo nei suoi pensieri, si accorse che si era fatto tardi. Al teatro civico lo spettacolo al quale era stata invitata stava certamente già volgendo al termine. Lasciò quella allegra compagnia, si dimenticò che del vestito che aveva pensato di indossare al posto della divisa d aviatore che ancora portava, e si precipitò verso il teatro. Sentiva ancora, se possibile più forte di prima quella forza che la spingeva ma che solo in parte era riuscita ad interpretare.
Si era già all’ultimo atto della commedia. Claudel si affaccio da una delle poche loggette rimaste vuote, a lato della loggia d’onore dove stava il comandante. Era da poco arrivata quando le fu portata da un giovane una rosa rossa con una piccola pergamena legata allo stelo con un filo d’orato. Era un invito piuttosto strano, forse anche tenebroso per la giovane contessa Claudel. Ella tuttavia sentì una eccitazione profonda nel suo più intimo sentirsi di donna. Doveva andare a quell’appuntamento per quella stessa notte nelle stanze del poeta. Finita la rappresentazione cercò invano gli occhi del Comandante, come alla ricerca di un gesto di complicità o solo di assenso.
Era pur sempre nella città di Vita. Con rapidità nella notte salì lo scalone del palazzo della Città, alcune guardie la osservarono passare ma erano tutti abituati alle amanti che nottetempo percorrevano quei corridoi. Attraversò tre saloni usati di giorno per i ricevimenti e la notte per i balli per arrivare in fondo alo studio del poeta. Credeva di sapere che cosa avrebbe trovato ma non ne era certa. Aprì la porta e vide quella piccola figura seduta in poltrona, con addosso una vestaglia rossa e dorata e gli occhi che la fissavano. Se dietro al molo, giù al porto aveva conosciuto Nettuno, e ancora prima nella stesso uomo che ora aveva innanzi aveva visto Apollo, si trovava ora a contemplare Dioniso. Di nuovo lei ninfa al cospetto del dio. Di nuovo incarnazioni umane di quelle forze che immobili muovono la Storia. O forse solo suggestioni letterarie in umani incontri.
Dopo quell’incontro, dopo quegli incontri, il bello e il buono, il razionale e l’irrazionale, il superbo e il negletto assumevano nuove valenze e si fondevano nel ricordo di atmosfere e profumi vissuti in quelle ore. Nell’alba di un giorno di primavera una donna splendida, in vesti da aviatore, decollava dalla spiaggia di Fiume, lasciandosi alle spalle la città di Vita.

domenica 10 febbraio 2008

NOIA

Vuoto sconfinato e voglia di volere

Aria di sale, di terra e di sole

Senso di uomo ad occhi chiusi e braccia tese

Estensione del concetto definito e preciso di tristezza

Assenza e presenza di stimoli esogeni
che, inutilmente, rivendicano grande influenza

Massimi sistemi ed infimi dolori che si incontrano

Oltreuomo solo per aver lasciato se stesso dietro la porta

venerdì 8 febbraio 2008

Ma quanto è bello...(ovviamente non è mio...)

Divina Commedia - Canto VI - versi 1-36

Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d'i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,

novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch'io mi mova
e ch'io mi volga, e come che io guati.

Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l'è nova.

Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l'aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e 'l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.

Urlar li fa la pioggia come cani;
de l'un de' lati fanno a l'altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.

E 'l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.

Qual è quel cane ch'abbaiando agogna,
e si racqueta poi che 'l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,

cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che 'ntrona
l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde.

Noi passavam su per l'ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.

P come Paziente ( e come Professore )

SINGOLO ATTO TEATRALE BREVE
Autori: theuncle & dash
Personaggi:
I: infermiera
M: medico
P: paziente
( giovane medico, in mano una cartella clinica, a fianco una barella con sopra un paziente e un infermiera)
I: Paziente di 82 anni, Alzheimer in terapia da 5 anni, iperteso, ieri caduta accidentale nella casa di riposo dove risiede, sospetta frattura di femore.
M: ma adesso che la vedo, lei è proprio il professor Riccardi, il professore di latino del liceo.
P: Perché sono stato così tanto lontano da Itaca, dalla mia sposa testarda…ho un forte dolore alla gamba…( pausa)…questa mai sorte, se solo fossi nata donna potrei dirmi Euridice nell’inferno insieme a Plutone.
M: ma tra tutti i problemi che ho, anche il mio vecchio prof che non connette più, beh, Francesca, vediamo di fargli un radiografia alla gamba e mandarlo a casa.

( P esce con infermiera. M rimane in scena, si guarda il cellulare, nessuna chiamata, sospira. )
M: ma guarda che mi tocca anche rivedere il prof Riccardi, non basta essere di turno alle due di notte in questo inferno? Euridice?...e inferno…peccato che io non sia Orfeo! Ma in fondo quando mai sono stato capace di fare Orfeo?.. con Pier?una litigata e mai una birra per chiarirci…..Giorgia? un amore sputtanato dietro al troppo lavoro….al mio idealismo come lo chiamava lei….che poi anche Orfeo in fondo ci credeva veramente? Mica pensava davvero che gliela avrebbero fatta portare fuori dall’inferno la sua Euridice?
Lo conoscevano, loro erano Dei e sapevano già che si sarebbe voltato…in fondo me lo dice sempre Marco che sono troppo fatalista! Ma non ho mai tempo neanche per pensarci, con tutti malati che mi tocca vedere in un giorno...e poi mi dicono ancora che di ogni malato dovrei approfondire tutti gli aspetti… Se con quella signora dell’altra sera, quella con quegli strani lividi al braccio avessi battuto un po’ di più…magari lasciando il marito in sala d’attesa a grugnire, non mi avrebbe raccontato la balla fin troppo scontata della scala…ma sono un medico o un prete?....eccolo che torna. Lui in fondo al liceo era un prete, tutte quelle prediche…ma cosa diceva? Le ho mai ascoltate? giocavo a fare il Jack frusciante. No…non potevo già essere di corsa allora…forse pensavo solo ad altre cose, allora quelle erano le più importanti.

( ritorna P sulla barella con l’infermiera che lo spinge, scende si mette a camminare zoppicando)
M: stia sulla barella, professore, mi cade ed è pure colpa nostra questa volta…
P: Allora colta dal pungolo d’amore inviatole da Poseidone, dio del mare e fratello del divino Zeus, Pesifae, moglie di Minosse re di Creta, si fece costruire dal geniale architetto Dedalo una giovenca di legno. In essa entrata, unì la sua carne a quella del toro e da questa unione partorì, atroce vendetta di Poseidone primo padrone del toro, il Minotauro. Minosse, scoperto il frutto dell’irrazionale unione lo rinchiuse e nascose alla civile Creta.
Ma un caro prezzo: cinquanta giovani fanciulle ateniesi ogni anno condannate a scender nel labirinto e non più vedere il volto della propria madre…
M: Francesca, rimettiamolo sulla barella. Poi portalo di là e fagli un calmante. Io intanto sento quelli della casa di riposo che vengano a riprenderselo.

( l’infermiera siede P e esce con lui. Il medico telefona, nessuno gli risponde. Posa il telefono, si siede e apre un giornale. L’infermiera ritorna, sola)
I: L’ho lasciato di là a Stefano, era così agitato!
M: certo che non cambia mai niente…..noi proviamo d intrappolare la violenza, la rabbia che ci costringono a mangiare ogni giorno, ma tanto esce, per forza guarda quanta gente che ci arriva ogni giorno senza niente in realtà, ma solo incazzata col mondo….vero Francesca?
F: sì, e poi si sfogano soprattutto con noi. Come il rumeno dell'altro giorno, che si chiamava strano, che si era preso il dito in qualche macchinario...che mentre lo medicavo mi diceva che tutti gli altri che lavorano con lui in quel periodo erano in ferie, quindi gli toccavano troppe ore al giorno oltre a quelle che faceva in nero normalmente, e ce l’aveva col capo che lo fa lavorare troppo, con i colleghi che ognuno pensa per sé e via. Con la moglie che gi rinfaccia che porta troppi pochi soldi, con i figli che si dannano l’anima. Ma se c’è sempre l’ennesimo figlio di papà che ti passa davanti…
M: che l’altra sera parlavo con un ematologo francese qua per un congresso, hai visto i manifesti no, bè sua madre prima viveva in una banlieu e adesso si è dovuta trasferire e si è ridotta a votare Le Pen, sperando che non debba mai più vedere dei ragazzini che le bruciano la macchina…
F : ma poi tu sei così sicuro che tutta questa violenza non sia solo uno dei tanti nostri avanzi……in fondo a noi le banliue fanno comodo….noi siamo tranquilli dalla parte giusta, loro da quella sbagliata: sono tossici, poi rubano, bruciano, non vanno a scuola.Ma noi vorremmo che i nostri figli crescessero con loro?
M: tu hai ragione. Ma poi anche tu, non prendiamoci in giro, quando sei vicina a un nero sul tram, la borsetta te la stringi stretta. E ti capisco anche. Alla fine ha ragione lui: ai greci andava bene, era fin troppo facile capire chi era il male, il mostro, chi la vittima….
Siamo tutti nello stesso labirinto, e non abbiamo più vittime innocenti da mandare…..
F: sì sì hai ragione, mi chiamano di là. Vado. ( I ,non convinta, si allontana )
M: Vedi se ci penso mi sono dimenticato che le cose che questo vecchio pazzo mi raccontava mi piacevano anche . Ci pensavo un sacco, il pomeriggio…bè quando non pensavo ad Erika o qualche altra. Vedi, però, allora cambiavo una fidanzata a settimana. E non me ne fregava niente. Che poi non è che Achille grande eroe fosse perfetto come vuole far credere Brad Pitt…….come era già? Si era vestito da Donna, fra le figlie di quel re…va bè come si chiamava il re non mi ricordo;ma se cercassi sul libro del liceo troverei le pagine tutte consumate. Lui figlio di Dea arrivare ad umiliarsi, negare se stesso…Però, forse, per non morire chi è che non lo farebbe? Oggi chi non è pronto a barattare un etto della sua dignità anche solo per non passare un weekend da solo?E l’ho fatto anche io, in fondo. E l’alternativa non è morire con una freccia nel tallone….però io non passo alla storia, lui si…Che poi a ripensarci uno come Achille non sarebbe riuscito a fare a meno delle sue armi per sempre. Quel furbacchione di Odisseo ha solo accorciato i tempi…ma gli Dei infondo erano stufi della pace e degli eroi, la guerra di Troia doveva iniziare subito. Che poi un Dio annoiato, che ne so per esempio Marte, faccio fatica a vedermelo…per loro siamo come i lego nelle mani di un bimbo….
( suona il telefono)
M: Pronto Soccorso, dica.( pausa) Va bene, allora avviso l’infermiera che arrivate.
M( rivolto verso l’uscita): Francesca, hanno telefonato dalla casa di riposo, vengono a riprendersi il professore.
I( da fuori): Bene, ora sta parlando di un certo Admeto, secondo me è sempre peggio…Comunque preparo tutto.
M: (verso fuori)Grazie. ( di nuovo tra sé) Admeto, il fanciullo amato da Apollo…questo mito me lo ricordo benissimo. L’ho sempre trovato affascinante, addirittura assurdo. In fondo non lo si può capire, è troppo assurdo. Certo che a pensarci mi piacerebbe essere un prof. Sedermi sulla cattedra davanti a venti ragazzi e cominciare a raccontare loro qualcosa tra le tante su colui che tra gli dei è il modello nell’Amore, il divino Apollo. ( ora rivolto ad un immaginario pubblico ) Lui che sempre è l’amante, quella sola volta si fece oggetto d’amore, si fece pagare per esserlo. Punito da Zeus, perchè Asclepio suo figlio aveva osato resuscitare un morto, fu mandato sotto mentite spoglie come servo al re di Fere in Tessaglia. E di questo re si innamorò come solo un Dio può fare. Per lui confuse il divino con l’umano, il cielo con la terra, l’amante con l’amato. Ma andò ancora oltre. Quando giunse l’ora per Admeto di morire, Apollo, arriverà a fare ciò che nemmeno Zeus per l’amato Sarpedonte osò fare: ubriacò le Moire, figlie di Ananke, la Necessità, tessitrici silenti delle trame ordinate del mondo. Altri raccontano che ancora Admeto vive, e al suo posto di tanto in tanto qualcuno, come per prima fece la moglie Alcesti, lascia questo mondo. Ma si sa che in fondo nessuna di queste cose mai avvenne, ma sono sempre.

giovedì 7 febbraio 2008

spiegazioni...

Parole, molte qualcuno dice troppe, ogni giorno si affacciano nella mente di ognuno di noi. Come tante immagini che passano davanti ad una camera da presa che altro non è che il nostro intelletto. Il tentativo di fare qualche fermo immagine, magari anche sfuocato. Questo lo scrivere del principiante. Per necessità. Voglia. Amore. Esistenza. Essenza.

quel poco da sapere sul blogger...