Il ronzio della macchina volante, figlia della nascente tecnica aeronautica, si stava facendo sempre più vicino. In quel prati attorno alla città di vita di aerei in quei mesi ne atterravano molti più di quanti non ne atterrassero in tutta la penisola italiana. A qualche chilometro di distanza, dal balcone della reggenza il Comandante stava mescolando la dolce arditezza del suo linguaggio alle gioiosa voce combattente del popolo della sua città, che inneggiava al suo re. In quello stesso prato un gruppo di uomini, o forse sarebbe più giusto chiamarli ragazzi erano intenti ad intrecciare piccoli fiori di cui i prati della Dalmazia in primavera sono così ricchi intorno alle canne dei loro moschetti. Vedendo la macchia gialla dell’aeroplano che si avvicinava, si levarono i piedi come ebbri e corsero verso il punto dove sarebbe atterrata. La sorpresa sarebbe stata grande, ma non per quei legionari, quando sotto la cuffia del pilota comparvero lunghi capelli neri, sotto gli occhiali due occhi verdi e intensi e stretti nel giubbotto da aviatore due seni morbidi. No c’era dubbio: era una bellezza della natura, una delle moderne ninfe che sentivano il richiamo dionisiaco della Festa.
Gli si fecero incontro tutti insieme, i loro volti furono per lei un tutt’uno, erano il manifestarsi sotto forma umana dei suoi sogni di contessa di germanica discendenza.
La comune fratellanza doveva uscire da quelle parole che erano già nella mente di tutti:eia eia alalà!
Erano le tre del pomeriggio, il sole lambiva quella costa sacra ancora alto nel cielo e dava a quella primavera appena iniziata i suoi primi calori; la giovane con passo militaresco non meno dei suoi indumenti si fece accompagnare da quella turba festante fin al palazzo della reggenza. Lasciò con un saluto sorridente quei fanciulli che se l’avessero incontrata in patria, negli obsoleti schemi che opprimevano un Europa non troppo diversa da quella medievale, avrebbero dovuto congedarsi da lei con un inchino secondo quanto conveniva al rango di lei, e si diresse verso il portone che portava agli uffici del Poeta. Salì lo scalone, si presento alla segreteria per farsi annunciare. Le tremavano le gambe, dall’euforia. Aveva in tasca la lettera di presentazione che suo zio, conte giramondo, asso dell’aviazione pluridecorato ma anche gran conoscitore di bordelli e amico fraterno di D’Annunzio, le aveva dato. E anche l’unico della famiglia a essere a conoscenza della vera destinazione della nipote che si era allontanata con vaghe scuse da casa.
La pesante porta che si apriva sullo studio si mosse, e da essa uscì un piccolo uomo in divisa con un monocolo dorato che gli sottolineava ancor più la vivacità degli occhi spettatori di mille avventura ma ancor desirosi e furenti. Il fisico seppur da quello che raccontano i commilitoni fosse temprato a qualsiasi asperità della guerra di certo mal si intonava alla cadenza e alla veste marziale ma il volto, quello si penetrò nel profondo lo spirito di Claudel. Ne rimase sedotta, presa da una morsa profonda. Si salutarono in modo fraterno, quasi compagni di sempre seppur fino ad un attimo prima perfetti sconosciuti. Lui le cinse le braccia intorno alla vita mentre la invitava a portarsi con lui verso la grande porta a vetri che si apriva sul panorama del mare istriano. Lei diede inconsciamente una connotazione paterna a quella morsa leggera sui fianchi, poi d’un attimo quel pensiero tante volte insinuato e subito aborrito lo vide concretizzarsi davanti ai suoi occhi. Sentiva la forza di eros che la muoveva verso quel vecchio sdentato che parlava con una voce che pareva provenire da un altro essere da un qualcosa di più profondo e arcano, il dio dell’amore appunto o forse quello dell’ebbrezza, Dioniso come secoli fa lo chiamarono per primi coloro che in quelle stesse terre ne intuirono la tremenda potenza. Fu un attimo, interrotto dal repentino staccarsi da lei del poeta, attratto dalle urla festanti che provenivano dal cortile interno del palazzo. Si affacciò e vide un nugolo di arditi che invocava la perlacea bellezza che era loro sfuggita. Erano i ragazzi che Claudel aveva incontrato prima e dopo averla scortata fin lì non si accontentavano di averla vista sparire. In fondo loro erano più belli e più giovani. Non avevano ancora capito quel qualcosa dell’amore che Claudel invece aveva appena imparato.
Era scossa, allo stesso tempo euforica, assente, aveva ancora parecchie cose da fare e il comandante l’aveva invitata ad un concerto nel teatro cittadino per quella sera stessa alla quale non voleva mancare. Salutò quell’erma divina e scese giù per lo scalone, quasi a tuffarsi tra le braccia dei suoi angeli. Mentre in un misto di lingue europee si scambiavano battute e facevano domande a lei che parlava sei lingue, arrivarono al suo aeroplano. L’aiutarono a tirare giù i bagagli, e, sempre non richiesta scorta, la seguirono fino alla casa sul porto di un giovane suo amico. Questo, trasferitosi a fiume all’indomani della rivoluzione era momentaneamente in germania per una qualche attività legata al suo mestiere di pittore e aveva lasciato alla vecchia amica Claudel il suo alloggio. Congedare quegli spiriti ebbri di vita non fu facile, ma alla fine riuscì a chiudersi alle spalle la porta della stanza che era poi lo studio del pittore. Entrò, liberatasi finalmente di quel corteo, e si buttò sul letto. Gli occhi aperti a fissare il soffitto, il cuore a mille per le tante cose che le erano successe in quel giorno, il pensiero alle tante che dovevano ancora venire.
La stanza era spoglia, stavano da un lato un tavolo con quattro sedie impagliate, a lato dei quali si apriva una porta che dava su una piccola cucina. Sul lato opposto un letto disfatto, due cavalletti su uno dei quali stava l’abbozzo di un ritratto e un numero indefinito di tele, dipinte e bianche appoggiate su un comodino e una poltrona. Dalla finestra, davanti alla porta d’ingresso, uno scorcio di quel magnifico paesaggio che ben conosce chi è già stato a Fiume in primavera.
Si alzò, come colta da un fervore particolare, da una necessità di movimento. Quel movimento che aveva appena rifiutato cacciando quei giovani ora era di nuovo un imperativo per il suo spirito. In certi luoghi, in certi momenti non si può fare a meno di venire presi dalla forza della Storia. Forza ignota e per questo temuta, ma alla quale gli esseri sensibili come sensibile era Claudel non possono opporsi. Uscì di nuovo dalla porta dello studio, si trovò a camminare in una di quelle calate che portano verso la marina. Le botteghe con la loro mercanzia esposta, gli odori dei frutti nei cesti, i colori chiari delle case che riflettevano la luce del sole che vi filtrava in raggi sottili. Bandiere italiane e della nuova Reggenza sventolavano appese ai balconi. Un vociare diffuso circondava la voce di un lontano oratore. Seguì inconsciamente quella voce, arrivando fino ad una piccola piazza che si apriva all’incrocio tra cinque piccole vie. Su un palco stava un uomo alto e atletico, con una lunga chioma nera che gli danzava sulla fronte sottolineando col suo movimento i passaggio più appassionati del suo discorso. Parlava italiano con un leggero accento mitteleuropeo. Claudel si fece avanti tra la gente che ascoltava. La colpì l’eterogeneità di quel pubblico: vecchi istriani con la barba lunga, ragazzi ancora imberbi vestiti da soldati, giovani e adulti delle più varie estrazioni, arditi, poeti, donne di malaffare e eleganti matrone. Capì in quel momento che erano uomini come quello il motore, la sorgente di quella forza che muove, apparentemente in contrasto con le logiche e gli intrighi diplomatici, la Storia. Avanzò ancora fino trovarsi sotto il palco, che poi erano due tavoli da osteria accostati per l’occasione. Cominciò a guardare in quegli occhi accesi che sovrastavano quelle labbra carnose che si muovevano rapidamente incorniciate da una barbetta nera e lucente. L’oratore si chiamava Leone Kocknilsky, ma lei non lo sapeva. Nobile giramondo, letterato e poeta, aveva lasciato i paesi bassi da giovane per girare l’Europa del primo dopoguerra. Era stato al fianco del poeta fin dai primi giorni della Reggenza. Frequentatore del Club Dada di berlino e dei nascondigli degli anarchici serbi, dei caffè parigini e delle esposizioni internazionali futuriste. Esteta, nudista e vegetariano, gran consumatore di oppio. Finito di parlare se ne andò di fretta, quasi a disprezzare gli applausi che gli venivano da quella piccola folla, e si infilò in una delle strade che scendevano al porto. Claudel lo perse di vista, trascinata in mezzo alla gente per qualche metro. Scese anche lei per una di quelle calle. Arrivò ad una spiaggia che si apriva tra due scogliere. Si sedette un attimo in riva al mare a guardare il tramonto. Poi, spinta dalla curiosità di seguire il sole fino all’ultimo istante della sua orbita si arrampico sulla scogliera che gliene impediva la vista. Le apparve una visione dionisiaca: un uomo dal fisico perfetto, nudo su uno scoglio a pelo d’acqua, in piedi con in mano un tridente. Novello Nettuno sembrava concentrare su di sé gli ultimi raggi del Sol.e morente. Era lo stesso uomo che prima con dionisiaca forza stava arrigando in piedi su tavolo. Si avvicinò lentamente, si spogliò rivelando tutta la sua bellezza e si getto in acqua. Il mito andava ora in scena su quella spiaggia: il Dio e la ninfa, la terra e il cielo, l’eternità e la finitudine che si uniscono generando una forza vitale.
Questo ma non solo allora era in quei giorni Fiume, la città di vita di cui gli aveva detto il suo zio giramondo: un luogo dove storia e finzione, realtà e illusione, speranze e promesse andavano in scena prendendo a prestito dalla Vita gli attori. Nulla era proibito dal momento che nulla era stabilito come necessario. O almeno così era nella mente e nel corpo di molti spiriti liberi che si diedero appuntamento in quel luogo. Tutti con un unico intento: vivere. In senso totale.
Claudel ripercorreva ora nella direzione opposta quella stessa calata che aveva percorso due ore prima e intanto meditava questi pensieri. Il sole era ormai calato e la fioca luce dei lampioni illuminava a malapena il passo; davanti ad un’osteria vide alcuni arditi che si stavano mettendo a tavola. Invitata da uno di essi a fermarsi a mangiare con loro, accettò come se si conoscessero da sempre. Si accese una sigaretta e ne offrì anche a loro. In mezzo al fumo che si levava da quei piccoli rotoli di tabacco che bruciavano colse la fratellanza dei soldati. Quella che li tiene uniti in battaglia, che fa sopportare loro il dolore e la paura e che ora, insieme gli spinge all’amore e alla festa portando fiori nei loro moschetti. Il tempo correva e non solo nei suoi pensieri, si accorse che si era fatto tardi. Al teatro civico lo spettacolo al quale era stata invitata stava certamente già volgendo al termine. Lasciò quella allegra compagnia, si dimenticò che del vestito che aveva pensato di indossare al posto della divisa d aviatore che ancora portava, e si precipitò verso il teatro. Sentiva ancora, se possibile più forte di prima quella forza che la spingeva ma che solo in parte era riuscita ad interpretare.
Si era già all’ultimo atto della commedia. Claudel si affaccio da una delle poche loggette rimaste vuote, a lato della loggia d’onore dove stava il comandante. Era da poco arrivata quando le fu portata da un giovane una rosa rossa con una piccola pergamena legata allo stelo con un filo d’orato. Era un invito piuttosto strano, forse anche tenebroso per la giovane contessa Claudel. Ella tuttavia sentì una eccitazione profonda nel suo più intimo sentirsi di donna. Doveva andare a quell’appuntamento per quella stessa notte nelle stanze del poeta. Finita la rappresentazione cercò invano gli occhi del Comandante, come alla ricerca di un gesto di complicità o solo di assenso.
Era pur sempre nella città di Vita. Con rapidità nella notte salì lo scalone del palazzo della Città, alcune guardie la osservarono passare ma erano tutti abituati alle amanti che nottetempo percorrevano quei corridoi. Attraversò tre saloni usati di giorno per i ricevimenti e la notte per i balli per arrivare in fondo alo studio del poeta. Credeva di sapere che cosa avrebbe trovato ma non ne era certa. Aprì la porta e vide quella piccola figura seduta in poltrona, con addosso una vestaglia rossa e dorata e gli occhi che la fissavano. Se dietro al molo, giù al porto aveva conosciuto Nettuno, e ancora prima nella stesso uomo che ora aveva innanzi aveva visto Apollo, si trovava ora a contemplare Dioniso. Di nuovo lei ninfa al cospetto del dio. Di nuovo incarnazioni umane di quelle forze che immobili muovono la Storia. O forse solo suggestioni letterarie in umani incontri.
Dopo quell’incontro, dopo quegli incontri, il bello e il buono, il razionale e l’irrazionale, il superbo e il negletto assumevano nuove valenze e si fondevano nel ricordo di atmosfere e profumi vissuti in quelle ore. Nell’alba di un giorno di primavera una donna splendida, in vesti da aviatore, decollava dalla spiaggia di Fiume, lasciandosi alle spalle la città di Vita.
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